Europa e oltrePolitica e lingue

Sull’articolo di Mario Saracini

No english tax

La diffusione dell’inglese è un dono o un sopruso (o nessuno dei due)?

Mario Saraceni, linguista originario di Martinsicuro (Teramo) che da quasi vent’anni insegna all’università di Portsmouth, in Gran Bretagna, alla diffusione dell’inglese nel mondo ha dedicato libri come English in the World (2006), The Relocation of English (2010) e World Englishes: A Critical Analysis (2015), premiato l’anno successivo come miglior pubblicazione accademica di linguistica applicata dalla British Association for Applied Linguistics. È dunque più che qualificato per provare a rispondere, in un intervento su Aeon, alla domanda: «La lingua più parlata della Terra è un “dono” vivente o un “mostro” dalle molte teste?».

Il fatto che, alla fine del regno di Elisabetta I, nel 1600, l’inglese fosse parlato, nel mondo, da 4 milioni di persone e, alla fine del regno di Elisabetta II, da 2 miliardi, è spesso citato con orgoglio dai britannici. Orgoglio comprensibile ma, ad avviso di alcuni, mal riposto. Perché la lingua inglese non sarebbe, come anche molti politici d’Oltremanica amano ripetere, una delle migliori eredità del colonialismo britannico, bensì l’ennesimo sopruso. Ai danni di tante lingue (e culture) locali, vicine e lontane, dall’irlandese e dal gallese fino alla lingua yoruba in Nigeria. Come scrive Saraceni, «un certo numero di studiosi nel campo della sociolinguistica considerano l’inglese una lingua assassina e l’hanno descritto come una specie di mostro, come la micidiale Idra a più teste della mitologia greca. Chi vede l’inglese da questa prospettiva considera i suoi ruoli globali una forma di imperialismo linguistico, un sistema di profonda disuguaglianza tra inglese e altre lingue, schiacciate sotto il peso di un’ex potenza coloniale, la Gran Bretagna, e dell’attuale superpotenza mondiale, gli Stati Uniti. In The Oxford Handbook of World Englishes (2017), i sociolinguisti Robert Phillipson e Tove Skutnabb-Kangas notano come “il prestigio internazionale e il valore pratico dell’inglese possono portare all’occupazione del territorio linguistico a spese delle lingue locali e dell’ampio ruolo democratico che le lingue nazionali giocano”».

Tant’è che qualcuno ha iniziato a parlare di un «decolonizzazione dell’inglese» come parte di quella che, già nel 1986, lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o ha chiamato «decolonizzazione della mente». Una prima domanda, a questo punto, è: come dovrebbe essere questa decolonizzazione dell’inglese? Le posizioni divergono. «Ci sono state due posizioni principali .La prima considera l’inglese una sorta di “dono indesiderato” che, dato il suo status di lingua globale, può essere accettato pragmaticamente ma con riluttanza purché possa essere adattato, riforgiato e piegato in forme diverse. Questo inglese alla fine de-anglicizzatopotrebbe venir trasformato in una lingua africana e asiatica. In altre parole, l’inglese smette di essere proprietà esclusiva degli inglesi e degli americani e viene fatto proprio in altre parti del mondo. Diversi scrittori africani e asiatici sono stati strenui sostenitori di questa idea, da Chinua Achebe negli anni ‘60, a Salman Rushdie negli anni ‘80, fino a Chimamanda Ngozi Adichie più recentemente».

C’è, però, chi considera tale posizione troppo «morbida», ottimista e appannaggio soltanto di élite privilegiate, tipo quella appunto degli scrittori di successo in lingua inglese. «Da questo punto di vista, sostengono i critici, de-anglicizzare e rivendicare la proprietà dell’inglese è prerogativa di pochi e rimane ben al di fuori della portata di molti, che continuano a subire l’erosione delle loro lingue, culture e identità. La seconda posizione adotta un approccio più radicale. Da questa prospettiva, l’inglese non solo si è diffuso in tutto il mondo con l’impero, ma continua ad essere una lingua intrinsecamente e inevitabilmente imperialista. Appropriarsi della lingua è una mera illusione che funge da distrazione dai problemi reali: l’inglese continua a influenzare la vita di centinaia di milioni di persone, invadendo le loro società mentre le lingue locali vengono espulse dall’istruzione, dai media e dalla cultura in genere. Quindi la decolonizzazione dell’inglese dovrebbe comportare un maggiore e più sano equilibrio tra l’inglese e le lingue locali, nel quale queste ultime prosperano e riconquistano lo status e i ruoli che hanno perso a causa del colosso inglese».

I due punti di vista hanno però, ad avviso di Saraceni, un punto in comune. Descrivono la lingua, in questo caso l’inglese, attraverso metafore. «Un “regalo”, un “mostro”, un “bullo”, un “veicolo”, ecc. sono tutte cose che non sono, alla lettera, il linguaggio». Si dirà che non c’è niente di male: le metafore ci servono per capire meglio fenomeni complessi, per renderceli familiari. Saraceni, però, è convinto che ci sia un rischio nel non rendersi conto di quando si sta parlando per metafore (ad esempio quando parliamo del linguaggio come di qualcosa che «cresce e si evolve» come se fosse un organismo vivente). «Trattando qualcosa come se fosse qualcos’altro, la metafora può essere uno strumento molto potente per codificare ed esprimere un’ideologia. A seconda del “qualcos’altro” che scegliamo, possiamo usare la metafora per esprimere posizioni ideologiche distinte. Descrivere l’inglese come un “dono” ritrae la lingua come altamente benefica: un mezzo per migliorare la comunicazione globale e migliorare le prospettive di vita delle persone. Descrivendolo come un “mostro” si dipinge la lingua come una minaccia alla diversità culturale e linguistica: un’arma al servizio degli interessi neoimperialisti anglo-americani». E, ancora, «anche se non dichiarata esplicitamente, la metafora “X è Y” che possiamo recuperare da espressioni come “l’inglese cambia la vita” è “l’inglese è un agente”. E, una volta che l’inglese ha capacità di agire, può anche agire da solo, in modo indipendente dalle persone».

L’invito di Saraceni è invece quello di non dimenticare che anche le lingue camminano sulle gambe degli uomini che le parlano e le diffondono. Altrimenti si rischia di prendere di mira l’obiettivo sbagliato. «Nessuna lingua, incluso l’inglese, è intrinsecamente “buona” o “cattiva”, né è “ricca”, “potente” o “arrogante”. Nessuna lingua, compreso l’inglese, “fa” qualcosa. Non si espande, non si adatta, non evolve, non domina. Sono tutte scorciatoie che oscurano i rapporti tra le persone e il linguaggio. Sono le persone, non le lingue, ad essere potenti, minacciate, avide, generose e altro ancora. Sono le persone, non le lingue, che espandono la loro influenza, si adattano alle situazioni, cambiano le loro pratiche (compreso il modo in cui usano il linguaggio), dominano gli altri, sono soggiogate da altre persone e così via. Il “dominio” dell’inglese nel mondo e la concomitante perdita di altre lingue, identità e culture sono conseguenze dirette della disuguaglianza molto significativa che esiste nel mondo, che è una conseguenza diretta della colonizzazione e dei suoi effetti di lunga durata. L’inglese “mostro” è un sintomo di una malattia grave, non la causa. La decolonizzazione dell’inglese non comporta la rimozione o la restituzione di un oggetto. Implica la revisione di cosa sia l’inglese e, soprattutto, di cosa non sia».

Come precisa Saraceni rispondendo a un lettore del suo articolo (il quale gli obietta che «le lingue SONO organismi viventi»), «il punto che sto sostenendo qui è che, se tratti la lingua come se fosse un organismo vivente, stai minimizzando o addirittura cancellando il ruolo di persone, società, eserciti, ecc. e questo è particolarmente problematico quando si discute il ruolo dell’inglese in relazione alla (de-)colonizzazione».

L’Impero britannico l’hanno fatto gli inglesi, non l’inglese.

Luca Angelini| Corriere.it | 24.3.2023

0:00
0:00