Se la ricerca italiana non parla italiano facciamola fare agli altri.
L’ultimo Consiglio dei ministri del 31 gennaio ha, tra gli argomenti trattati, due tematiche da sempre seguite e analizzate dall’Era: il Made in Italy e la ricerca.
Leggiamo infatti nel verbale del consiglio alla voce “Sostegno al Made in italy.
Tra le principali novità introdotte c’è la creazione di un marchio per il Made in Italy agroalimentare, che contribuirà a rendere più semplice per i consumatori di tutto il mondo il riconoscimento dei prodotti autenticamente italiani. Il marchio sarà privato, facoltativo e in linea con la normativa europea e potrà dare un decisivo contributo alla lotta alla contraffazione e all’Italian sounding, che producono un danno all’export italiano di circa 60 miliardi di euro. Con lo stesso provvedimento si istituisce un credito d’imposta per le aziende che investano in infrastrutture logistiche e distributive all’estero per i prodotti italiani. L’obiettivo è colmare uno dei principali gap che frena le esportazioni del Made in Italy, ovvero l’assenza di forti piattaforme distributive italiane fuori dai confini nazionali.”
Mi chiedo, essendo le nostre aziende tassate ben oltre il 60% e il mercato italiano di 60 milioni di persone, al contrario degli Stati Uniti con un’imposizione fiscale di molto inferiore e un mercato interno di 300 milioni di persone, di quale entità sarà il credito d’imposta. Non solo, trovo suicida continuare a etichettare in inglese i prodotti italiani e non in italiano. Come se la nostra lingua e cultura non fosse un bene altrettanto esportabile e degno di essere esportato. Insisto: l’internazionalizzazione va fatta nella e con la lingua italiana, così come lo hanno fatto i popoli anglofoni ai quali invece siamo sempre più mentalmente asserviti.
E ancora, sempre nello stesso verbale leggiamo che, per allineare il Piano Nazionale per la Ricerca (PNR) a quello europeo Horizon 2020, anzitutto lo si vuol portare da triennale a settennale, col risultato d’avere maggiori rigidità che, se plausibili per un ambito continentale coinvolgente 24 paesi membri, mal si attagliano ad una programmazione di una sola nazione ma, quel che ancor più sorprende è come la Carrozza agita gli obbiettivi del rilancio della ricerca italiana.
Afferma che tale piano è “il frutto di una consultazione molto ampia portata avanti dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in collaborazione con il Ministero dello Sviluppo Economico, che sta coinvolgendo tutti gli stakeholder (da ciò si evince che la Carrozza non sappia che il plurale di stakeholder è stakeholders e che il ministro italiano non sappia che gli stakeholders in italiano sono gli Interessati) si dice maggiori, pubblici e privati, centrali e regionali, raccogliendo finora 2.145 manifestazioni di interesse”.
Ma attenzione a come, nel verbale di un Consiglio dei Ministri italiano vengono individuate dalla Carrozza le sfide del nuovo piano, il pressapochismo è indecente a dir poco: “Le sfide individuate sono undici:
-
Scientific and cultural progress;
-
Health, demographic change and wellbeing;
-
European Bio-economy Challenges;
-
Secure, clean and efficient energy;
-
Smart, green and integrated transport;
-
Climate action, resource efficiency and raw materials;
-
Europe in a changing world – inclusive, innovative and reflective societies;
-
Space and astronomy;
-
Secure societies – protecting freedom and security of Europe and its citizens;
-
Restoring, preserving, valuing & managing the European Cultural Heritage, Creativity;
-
Digital Agenda.”
Tanto per cominciare, solo in inglese! Gli italiani che pagano lo stipendio della ministra non devono sapere su che assi verranno spesi i soldi delle loro tasse che andranno alla ricerca italiana!
Ma il divertente arriva quando tra gli “assi prioritari” su cui il programma della Carrozza si arriva alla lettera C: “la promozione, anche attraverso il trasferimento di conoscenza e competenze, della capacità d’innovare e di competere da parte del sistema delle imprese, in particolare delle piccole e piccolissime.
In questi passaggi del verbale le incoerenze sono talmente evidenti e profonde che se la leggesse un 80enne che ha fatto il contadino tutta la vita, le noterebbe. Perché è fin troppo evidente che, non solo perché descritte in inglese, le 11 sfide non sono declinate per il nostro contesto nazionale, anzi, non si comprende nemmeno di quale nazione si stia parlando. Addirittura una delle sfide elencate sarebbe la messa in sicurezza delle società, con relativa protezione della libertà dell’Europa e dei suoi cittadini! Ma il piano è italiano o Europeo?!
Considerato che il tessuto produttivo del paese è fatto dalle piccole imprese, i cui titolari spesso sono ex operai che si sono messi in proprio è evidente che non si vuole affatto comunicare con esse dato l’utilizzo del solo inglese. Anzi si vuole distruggere quel tessuto produttivo producendo una selezione per anglocasta linguistica.
Insomma, dopo le 501 poltrone di società pubbliche la cui selezione di base viene fatta fare a due società americane, anche la ricerca destinata al tessuto produttivo italiano viene messa in man, in lingua, agli stranieri.
Sempre che ci sarà ancora un tessuto produttivo italiano visto il continuo vendere le nostre eccellenze a stranieri.