Politica e lingue

Quando vince la neo-lingua da spogliatoio

Da Trump a Salvini, domina il politicamente scorretto

Quando vince la neo-lingua da spogliatoio

Spacciata per il grido liberatorio dell’uomo qualunque contro le catene della “correttezza politica” imposte dalle élite, una truculenta neo-lingua oggi invade il discorso pubblico e irrompe nei saloni della diplomazia, naturalmente diventando il nuovo conformismo: è la “correttezza della scorrettezza”. Il Boris Johnson, lo scarmigliato ex ministro degli Esteri britannico alla ricerca di una parte in commedia, che ridicolizza le donne musulmane coperte dal burqa trovandole «simili a cassette della posta», è più la norma che l’eccezione in un mondo nel quale anche il giudizio sulle terga (o meglio il “culo” come impone la nuova semantica di successo) della cancelliera Merkel attribuito a Silvio Berlusconi non farebbe oggi più grande scandalo. Da Internet alla Radio, dalla carta ai palazzi della politica, sono la battutaccia, il pernacchio, il dileggio il nuovo galateo.

La morte del linguaggio diplomatico, dell’arte di dire senza dire, di respingere senza chiudere, di “ribadire”, “auspicare”, “riaffermare”, di essere sostanzialmente noiosi e vaghi che generazioni di ambasciatori e facoltà di Scienze politiche avevano praticato e studiato dalla Grecia classica, era nell’aria da tempo anche in Italia. Dall’irruzione del priapismo bossiano, sintetizzato dal celodurismo, al grido di battaglia che Beppe Grillo lanciò a Bologna, invitando i propri seguaci a una presa leggermente diversa da quella della Bastiglia, offendere e deridere sono gli strumenti di una comunicazione politica e internazionale falsamente vera, costruita sulla grammatica dei peggiori talk show o varietà televisivi. Non è soltanto coincidenza se il presidente americano debba a un reality la propria notorietà e se l’immagine del partito di maggioranza relativa italiano sia curata da un prodotto della fiction spacciata per realtà.

Ma è stato definitivamente il candidato e poi presidente Donald Trump a legittimare, nella propaganda interna come in quella internazionale, la trasposizione del linguaggio da «locker zoom» come disse lui – da spogliatoio, alla piazza pubblica dei comizi e della diplomazia, compressa nelle pillole velenose dei suoi tweet. Da «Hillary la Farabutta» al «Piccolo Marco» riferito all’avversario Marco Rubio più basso dì statura, a «Ted (Cruz) il Bugiardo» a «Bush (Jeb) con la batteria scarica», il passaggio agli insulti transnazionali era prevedibile. Arrivò per Kim Jong-un il «Piccolo Rocket Man», di nuovo alludendo alla statura fisica che sembra ossessionare il presidente, prima che lo stesso Kim assumesse taglia da grande statista dopo l’incontro di Singapore e la finzione del disarmo nucleare. La Nato, quell’alleanza voluta e creata dagli Stati Uniti e per 70 anni piedistallo e antemurale della superpotenza americana di fronte all’avversario, diventa addirittura “obsoleta”.

L’unico che finora è sfuggito ai morsi della neo-lingua politicamente scorretta “che tanto piace alla gente” è Vladimir Putin, per il quale Trump ha soltanto parole dolci, pur essendo bassino di statura, una predilezione che si può spiegare in molti modi, non tutti limpidi secondo le inchieste in atto sulla complicità russa nella campagna elettorale. Ma se Trump è Trump l’incontenibile che con miliardi e lauree alla Ivy League si finge ruspante e rozzo per alimentare il proprio personaggio, la volgarità banale del nuovo linguaggio punteggiato da strafalcioni grammaticali e sintattici o lo squallore degli inviti a «far buon viaggio», a «mandare cartoline» a godersi «la crociera» indirizzato a disgraziati che annaspano e affogano, è trasmigrata all’altro vicepresidente italiano.

Il proibito di ieri è l’obbligatorio di oggi. I cinesi sono non più amici o concorrenti, ma tornano a essere gli astuti, imperscrutabili “orientali” che Trump accusa di imbrogli, truffe e sotterfugi. L’Unione europea, che per più di mezzo secolo è stata il corrispettivo politico dell’alleanza militare nella pacifica prosperità dell’Occidente, è un «foe», un nemico, che va rimesso al suo posto. E Theresa May un’inetta che si è lasciata intrappolare in un negoziato sbagliato perché non ha voluto seguire i suggerimenti di Trump. Non proprio una cretina con «un bassissimo quoziente di intelligenza» come la onorevole Maxine Waters, ovviamente afroamericana, ma almeno non un «demente» come l’ayatollah Rouhani. E gli immigrati sono «stupratori, ladri, membri di gang sanguinarie», come i giornalisti sono «la più ripugnante, disgustosa forma di vita». «Nemici della Patria».

Siamo oltre la diplomazia muscolare, lo sfoggio delle cannoniere o le “franche discussioni” alle quali un tempo i comunicati finali dei vertici alludevano per non dire che i grandi capi si erano presi a male parole. Oggi le male parole pubbliche sono la nuova forma di comunicazione e di non dialogo, costruiti per escludere gli impuri e compattare i clienti al banco del bar dell’odio. Le bugie diplomatiche erano state elaborate nei secoli per non offendere e quindi non spingere allo scontro. «Un diplomatico è un signore pagato per mentire per conto del proprio paese», diceva Kissinger. D’ora in poi, se si afferma la nuova cultura dei Johnson, dei Trump e dei Salvini, gli ambasciatori saranno pagati un tanto a insulto.

Vittorio Zucconi | La Repubblica | 10.8.2018

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