Questo articolo è disponibile anche in: Inglese
Abbiamo un nuovo virus, con tanto di nome scientifico: virus anglicus! Si sa che i virus fanno ammalare e anche morire, ma in Italia pare che questo ce lo vogliamo tenere e nutrire, finché ucciderà la nostra lingua e noi (speriamo di no).
Il virus anglicus ci viene presentato in un articolo molto interessante apparso nientemeno che sull’Enciclopedia Treccani, che ci spiega come l’abuso di termini inglese nella nostra lingua sia assolutamente non necessario, dannoso e pure ridicolo (quando si arriva ad inventare parole o espressioni). L’autore parla apertamente persino di “lavaggio del cervello”! e di come i termini inglesi vengano utilizzati da certe persone per darsi un tono, apparire più… qualunque cosa. Riporto prima alcune frasi che ritengo più significative e poi tutto l’articolo. Buona lettura.
“Non si tratta perciò di un “internazionalismo”, ma di un fenomeno di “trapianto” tipicamente nostrano. Sembra quasi che non appena il “modello italiano” sia diventato internazionale, abbiamo cessato di esprimerlo nella nostra lingua per passare all’inglese, come facciamo con l’italian design e il made in Italy. È un percorso ben diverso da quello che accadeva in passato, per esempio quando il periodo di isolamento di quaranta giorni della quarantena si è diffuso in tutto il mondo molto probabilmente dall’italiano”
“Gli anglicismi evocano un registro più alto con cui elevarsi socio-linguisticamente”
“Quando la parola passa agli esperti, nei programmi televisivi accade dunque che ricercatori, economisti, politici e tecnici calino l’inglese dall’alto”
“Se questa diventa l’unica strategia, però, risulta patologica per il nostro lessico“
La panspermia del virus anglicus
Nel giro di un paio di mesi dallo scoppio della pandemia del 2020, hanno conquistato la stampa parole come lockdown, smart working e droplet. Si parla di covid hospital, covid pass, wet market e si usano altre espressioni che provengono dall’ambito scientifico (spike, spillover) o politico-economico (recovery fund, coronabond). Un’analisi degli anglicismi del lessico giornalistico e televisivo mostra anche che una gran quantità di vocaboli già in circolazione hanno aumentato la loro frequenza (trend, screening, task force) o si sono radicati in modo più consistente (hub, cluster, call). Questo lievitare dell’inglese sembra in linea con ciò che sta avvenendo nella nostra lingua da molti decenni, con la differenza che l’esposizione mediatica del coronavirus lo ha accelerato e amplificato, e ci consente di vederne meglio i meccanismi di propagazione come attraverso una lente di ingrandimento.
Dalla quarantena al lockdown e dal mercato al wet market
Quando la Cina ha deciso di imporre la chiusura di Wuhan, il 23 gennaio 2020, non si parlava ancora di lockdown. E quando il coronavirus è scoppiato in Italia, alcuni comuni della Lombardia sono stati dichiarati “zona rossa” (23 febbraio). Poi è arrivata la chiusura delle scuole (4 marzo), dell’intera regione (8 marzo) e di tutta l’Italia (9 marzo). La lingua dei giornali parlava di chiusura (tutto chiuso, chiusa l’Italia), di un Paese blindato da provvedimenti restrittivi, di blocco, isolamento, confinamento, serrata, quarantena e in senso lato persino di coprifuoco. Insomma, fino a che il problema era cinese e italiano non si è registrata un’interferenza dell’inglese significativa.
Tutto è mutato con rapidità quando il virus a corona ha raggiunto i Paesi anglofoni. Mentre da noi si parlava ancora di “misure cinesi”, i decreti italiani sono diventati per vari governi europei il “modello” di come una democrazia potesse varare analoghi provvedimenti restrittivi, e la stampa anglofona ha etichettato tutto ciò “Italy lockdown“.
A metà marzo, mentre il presidente Conte annunciava il decreto “Cura Italia”, l’anglicismo è entrato ufficialmente nei titoli di molti giornali e in televisione, e le virgolette sono definitivamente cadute insieme alle spiegazioni da affiancare. Nell’archivio del Corriere.it la sua occorrenza era di poche unità all’anno. Si trovava solo negli articoli che riferivano dei blocchi di scuole o quartieri statunitensi messi in “lockdown” durante eventi terroristici o sparatorie in corso. Al 30 aprile 2020 gli articoli erano più di 1.000 (114 in marzo, quasi 900 in aprile). Il provvedimento non era più una misura statunitense, è diventata la nostra, e persino Conte ha usato questa parola più di una volta in televisione. Compiendo analoghe ricerche su quotidiani come Le Monde o El País l’anglicismo risulta invece assente o quasi, esattamente come non compare sulla Wikipedia francese e spagnola, al contrario di quella italiana. Non si tratta perciò di un “internazionalismo”, ma di un fenomeno di “trapianto” tipicamente nostrano. Sembra quasi che non appena il “modello italiano” sia diventato internazionale, abbiamo cessato di esprimerlo nella nostra lingua per passare all’inglese, come facciamo con l’italian design e il made in Italy. È un percorso ben diverso da quello che accadeva in passato, per esempio quando il periodo di isolamento di quaranta giorni della quarantena si è diffuso in tutto il mondo molto probabilmente dall’italiano (in inglese quarantine, in francese quarantaine, in spagnolo cuarentena).
Sono molti gli anglicismi trapiantati nella lingua dei giornali con le stesse modalità di lockdown, anche se meno popolari. Fino a marzo, sulla stampa si leggeva del famigerato mercato di Huanan della città di Wuhan, dove pare che il virus abbia compiuto il salto di specie. Tra le altre definizioni più in voga c’erano mercato del pesce (talvolta ittico), mercato a cielo aperto, mercato di animali selvatici o di specie selvatiche. Ma in inglese si chiama wet market, e perciò in breve sono apparse anche le prime traduzioni letterali di mercato umido o bagnato. Dopo le petizioni lanciate da organismi internazionali e dall’Oms (“Chiudiamo i wet market”), l’inglese ha preso il sopravvento (“Dal ‘wet market’ allo ‘spillover’: come nasce una pandemia”, Il Sole 24 ore, 28 marzo). Dai primi di aprile tutta la stampa ha rilanciato la petizione prevalentemente in inglese, in febbraio nell’archivio del Corriere.it l’espressione non esisteva, in marzo se è ne è parlato in un solo articolo, in aprile in 12.
Altri anglicismi che provengono dagli ambienti internazionali riguardano l’economia e la politica della Comunità europea, per esempio, da cui sono arrivati i recovery fund (fondi per la ripresa) inizialmente denominati sui giornali anche recovery bond (visto che le obbligazioni si dicono sempre più spesso bond e si ritrovano in eurobond e coronabond). Gli anglicismi evocano un registro più alto con cui elevarsi socio-linguisticamente, suonano più precisi e tecnici, e dunque si diffondono e radicano senza traduzione sia nelle discussioni parlamentari, sia soprattutto nel linguaggio mediatico che ne opera il “trapianto” lessicale, una metafora che mi sembra più appropriata di quella del “prestito”.
La parola gli esperti: droplet, spike e spillover
Il lessico inglese non è solo il modello linguistico preferito dai giornalisti, è anche la lingua prevalente della scienza e di moltissimi altri ambiti. Quando la parola passa agli esperti, nei programmi televisivi accade dunque che ricercatori, economisti, politici e tecnici calino l’inglese dall’alto battezzando sempre più spesso ciò che è nuovo in inglese crudo. Per questo è passata l’informazione che il virus a corona è caratterizzato da uno “spuntone che si chiama spike”, e talvolta si è designata la sua proteina di superficie con spike protein. In italiano esisterebbe spinula (come si indica in ambito scientifico e biologico una formazione anatomica o patologica a forma di spina) e si potrebbe benissimo dire la proteina a spinula. Ho domandato all’immunologa Maria Luisa Villa, che da anni si batte per non abbandonare l’italiano nella scienza, se fosse lecito parlare di spinula. Mi ha risposto che la trovava un’ottima traduzione e che avrebbe chiesto un parere a qualche collega virologo per capire se qualcuno dicesse così, aggiungendo sconsolata: ma “temo che l’argomento sia per loro di scarso interesse”. Al virologo Fabrizio Pregliasco la traduzione è piaciuta, ma il punto è che, davanti a una parola nuova, la soluzione più in voga è quella di usare l’inglese senza nemmeno porsi il problema. Se questa diventa l’unica strategia, però, risulta patologica per il nostro lessico, che cessa di evolvere per definire ciò che è nuovo per via endogena, con il risultato che una buona metà dei neologismi del nuovo millennio è in inglese, stando ai dizionari.
In molti casi per giustificare la “necessità” di un anglicismo capita che si reinventi il suo significato trasformandolo in qualcosa di nuovo anche se non lo è affatto. Droplet, per esempio, significa semplicemente gocciolina ma, passando dalla denotazione alla connotazione, sembra voler sintetizzare in una sola parola il contagio da inalazione delle particelle di saliva nebulizzate (gli sputacchi sospesi nell’aria, si potrebbe dire in modo brutale), e persino il problema della distanza di sicurezza per evitare infezioni, perché così è stato introdotto dalla stampa agli inizi di marzo (“Cosa vuol dire ‘droplet’ e perché c’entra con la distanza che dobbiamo tenere dalle persone infette”, La Stampa, 2/3/20; “Coronavirus e droplet: ecco la distanza di sicurezza anti-contagio”, Corriere della Sera, 2/3/20). In questo modo si è radicato ed è stato al centro di molte spiegazioni nelle conferenze stampa della Protezione civile (dove spesso viene usato come tecnicismo) e nelle delucidazioni dei virologi. Nel suo “acclimatarsi” al momento suona più preciso, tecnico e scientifico, ma ancora una volta non si è diffuso in Francia e Spagna, dove si parla di goccioline in modo chiaro e semplice.
A volte, questo ricorso all’inglese “modificato”, che nel suo attecchire si ricava nei confronti degli equivalenti italiani una specificità che non avrebbe, si spinge al punto da produrre veri e propri pseudoanglicismi che si discostano dai significati ortodossi o sfociano in ricombinazioni di radici che suonano inglesi ma sono soltanto maccheroniche.