Quadro terzo
FONDARE LA CULTURA EUROPEA
“Non l’Europa è postulata, ma col nome di Europa l’umanità (col nome di umanità l’onnipresenza divina: Dio stesso”.
Hugo von Hofmannsthal
“E l’Europa, contesa tra i due mondi in lotta, non tenta neppure di elaborare un suo mito, una sua idea di se stessa che abbia ancora un valore universale”.
Eugenio Montale
LA FONDAZIONE DELLA CULTURA EUROPEA
Come superare l’empasse del crollo ideologico degli anni ’70 e rinvenire da quel sogno rivoluzionario trasformatosi in incubo, se non riattingendo alla realtà immediatamente tangibile della propria intimità, dei più vicini affetti, simpatie, luoghi culturali; dove cercare conforto ed insegnamenti per una nuova meta comune se non nella storia, dell’arte e della sua materia di realizzazione principe: la pittura.
Tali insegnamenti però, come abbiamo visto, non hanno prodotto la giusta maturazione, la storia non ha prodotto vita né meta, e quell’eclettismo storicistico, oggi anche nelle sue espressioni più radicali e neoconcettuali (le quali non hanno dalla loro nemmeno la “novità” di quello effettuando così un passaggio di natura necrofila), finisce col costituire solo un atteggiamento, assumendo, infine, le caratteristiche di un’attività inconcludente ed effimera.
Nessuno ha immesso, in questo generale ricorso alla storia più o meno recente e recentissima, un vettore specifico, una direzione esatta che potesse far pensare non ad un vacuo rimemorare, bensì, ad un ritrovare radici per edificare futuro.
L’uso della storia non è stato e non è guidato da uno spirito di revisione critico e costruttivo, in un’ottica risolutiva dei problemi che bloccavano e bloccano lo sviluppo della nostra società, né da un fare additativo in rapporto ad una considerazione di fattori emblematici della propria collettività.
Anzi, il maggior ostacolo è stato ed è proprio quello della individuazione della “propria collettività”, della società per la quale e con quale far vita e storia, presente e futura.
Gli artisti italiani ed europei di questi ultimi decenni non hanno mai rapportato la loro cultura immaginativa ad una possibile e reale crescita sociale di valore universale, anche loro, e con loro tutto il mondo dell’arte dal 1945 in poi, sono rimasti vittima di poteri extraeuropei. Pesantemente condizionati da poteri extraeuropei, fin dentro i loro sogni e le loro utopie. Le premesse per una grande rivoluzione culturale di valore universale erano invece presenti politicamente fin dal 1941 con il Manifesto di Ventotene scritto da Spinelli e Rossi (68), relativo alla costruzione della federazione europea come primo passo verso la federazione mondiale.
C’erano all’interno di quel Manifesto due idee politiche importanti, innanzitutto che la federazione non assumeva l’aspetto di bel ideale, da omaggiare occupandosi poi d’altro, ma quello di un obiettivo da realizzare subito. Quindi un invito non al sogno ma all’agire immediato.
La seconda idea significativa consisteva nel dire che la lotta per l’unione europea avrebbe creato un diverso e nuovo spartiacque fra le correnti politiche. Leggiamo infatti nel Manifesto: “La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale’ (69).
Un’idea, quest’ultima, incredibilmente premonitrice in rapporto al nostro vissuto crollo dell’ideologia marxista degli anni ’70.
Ma anche non considerando detto Manifesto, è dal 9 maggio 1950, quando il Ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, propose di sottoporre la produzione del carbone e dell’acciaio al controllo di un’autorità europea, con la conseguente creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che tutto il nuovo della nostra storia politica ed economica conduce verso l’unificazione europea.
Ebbene a tutto questo cammino iniziato e percorso dalla società europea in questi ultimi decenni la cultura europea è stata praticamente estranea. Quella che poteva e può trasformarsi in nuova, meravigliosa avventura spirituale e culturale viene vergognosamente disattesa, ed a sostenere la necessità di un’Europa sempre più integrata sono oggi le avanguardie di banchieri, multinazionali, grandi industrie in cerca di nuovi lucrosi mercati.
Di fronte a tanta miopia dimostrata dagli intellettuali, dagli artisti e dai poeti europei, appare incredibile l’ “avanguardismo” di un Dante Alighieri che ben sei secoli prima della reale esistenza politica dell’Italia ne aveva prefigurato i confini geografici e culturali dotando i futuri italiani di una lingua e una cultura originale. Come ricorda Karl Apel: «Dante, per la prima volta, ch’io sappia, nella storia della cultura a noi nota, ha abbozzato – connessa coi problemi di una poetica – l’idea di una lingua non ancora esistente ma che va creata con l’artificio umano» (70).
In Europa, tutto è rallentato, stanco, e paralizzante anche le energie più giovani e vitali, esattamente per la mancanza di una cultura originale europea ma, proprio gli addetti alla creazione, gli artisti, pensano ad altro. Ed oggi assistiamo annoiati, dopo il remake della pittura antica e di quella moderna, anche al remake del Concettualismo. Segno che la questione non era e non è quella di pittura si/pittura no, bensì quella di un totale neoeclettismo di fine novecento, dove tutte le direzioni sono possibili e valide, e dove pertanto tutto è fermo, annaspante, cadaverico.
Invece oggi, la via del movimento vitale è quella del ricongiungimento della cultura con il cammino della società: tutta l’arte deve lavorare alla fondazione e costruzione di una cultura europea originale, formando un popolo europeo.
Dobbiamo occuparci di questa “societas in fieri” che è l’Unione europea e del significato che essa viene ad assumere nel mondo e per l’umanità.
Senza la ri-generazione delle società nazionali in una società europea sovranazionale non potrà esistere una grande arte, nel senso di un’arte che dia agli europei un nuovo e vivo essere, che smuova gli animi, gli uomini e quel che hanno.
Ma credendo nell’artista come figura responsabile, malgrado tutto, della cultura e della società, potrei affermare anche il contrario: senza una grande arte, senza una grande creatività e visione delle cose, non può esistere una reale rigenerazione europea.
Penso che il lavorio creativo debba anzitutto occuparsi del forte squilibrio esistente oggi in Europa tra le reali capacità e possibilità dei suoi abitanti ed il controllo straniero d’esse, innescando un processo liberatore.
Ora potrei essere retorico, quasi dogmatico, parlando della dominazione straniera in Europa la spartizione militare di Jalta, le fasi del potere sovietico nell’Europa orientale, e l’infiltrazione USA per l’Europa occidentale, una dominazione delle coscienze, quest’ultima, subdola e particolarmente sottile, psicoeconomica (un’antesignana, emblematica frase in tal senso può essere quella di Clark Hoover, presidente degli Stati Uniti dal 1929 al 1933 «Là dove penetra il film americano, noi vendiamo più automobili americane, più berretti americani, più grammofoni americani»).
Ma quanto inconcludente antiamericanismo ed antisovietismo in questi anni! Inconcludente e vuoto soprattutto perché le critiche ai due rispettivi sistemi, sia le più circostanziate e culturalmente valide, sia le più rabbiose od infantili, finivano coll’annullarsi vicendevolmente, prive come erano di una meta che rappresentasse una reale crescita (personale e collettiva, economica e culturale) sostanzialmente valida per tutti.
Questa grave posizione di stallo è stata generata soprattutto dal fatto che in Europa, il dibattito politico e culturale è stato bloccato sui termini antagonistici di capitalismo/comunismo, con la conseguente contrapposizione sociale di classe borghese/classe proletaria, e quindi, rispecchiando internamente il conflitto assoggettante USA/URSS.
In questo risulta evidente il motivo principale per cui l’Europa non si è ancora ribellata al dominio sovietico ed americano: “La ribellione al dominio viene paralizzata dalla paura di fare il gioco della classe avversaria, per cui ogni schieramento accetta il “barbaro dominio” anche se se ne vergogna, perché ribellandosi al dominio degli USA e dell’URSS una parte degli europei teme di fare il gioco di un’altra parte di europei”.
Cosicché “la lotta di classe, anziché portare all’eliminazione della guerra tra gli stati, è sfruttata dalla lotta tra gli stati socialisti e capitalisti, per cementare la lotta di classe ed un disegno imperialistico, dei quali l’Europa è la vittima più illustre” (71).
Uscire da questo universo malato e sadomasochistico, i cui sintomi annichilenti più chiari sono dati rispettivamente dal terrorismo e dal pacifismo (72), non è cosa semplice, tanto più che le parti europee “malate” ed impegnate da tanto tempo in questo rapporto sadomasochistico opporranno delle resistenze alla loro “guarigione”, poiché “la coincidenza tra lotta di classe e lotta tra imperi, in cui la legittimazione della licenza di uccidere data da Marx alla lotta di classe coincide con la legittimazione di uccidere nella lotta tra imperi, porta l’Europa a vivere in senso distruttivo ogni processo creativo” (73) e sanatore.
Da qui la necessità europea di una creatività molto particolare; una creatività della ricomposizione, del ricongiungimento, una creatività dell’unione. E l’Unione degli europei dovrà assumere l’aspetto non solo di una ripresa del cammino della libertà, ma di una vera e propria rivoluzione culturale pacifica, evidenziando conseguentemente, una diversa ideologia, che potremmo definire ideologia dell’unione.
Ed Unione è il nome della nuova entità politica che da decenni stiamo cercando di portare a compimento, difatti questa è l’espressione adottata fin dal 1952 per descrivere lo sviluppo e la conclusione della costruzione europea. Costruendo culturalmente l’Europa si risolve il fallimento delle ideologie sociali proprie al Concettualismo con l’acquisizione di un nuovo progetto fortemente connotato sia idealmente che realisticamente dove il fine a cui mirare è “l’educazione diffusa di uomini forniti di grandi capacità d’iniziativa e della possibilità di svolgerle, di uomini che si sentono impegnati a costruire per proprio conto la loro vita, ed abbiano quindi indipendenza dalla classe governante e senso di responsabilità molto sviluppato”74.
Sembra anche ricomporsi in tal modo, un dissidio tra cammino politico delle istituzioni e creatività artistica, che appariva insanabile e ricordo d’altri tempi; questo grazie all’individuazione di un “giusto luogo”, di una eutopia (ευ τοποσ), contrariamente al nichilistico non‑luogo, all’utopia (ου τοποσ), che ha caratterizzato la cultura degli anni ’70, e non solo quella.
Se questo è il cammino di una cultura che dopo molteplici peregrinazioni arriva all’individuazione del proprio giusto luogo, è anche vero che in questo luogo essa trova, già lí da parecchi anni, varie organizzazioni culturali di formazione europeista, la cui attività però, sembra dettata solo dall’occupazione politica di uno spazio culturale, tanto è essa banale, inconsistente e formalmente di retroguardia.
Spesso tali organizzazioni non fanno altro che spostare in ambito europeo gli identici temi dominanti nella propria cultura nazionale, oppure, aggiornano periodicamente il confronto sui soliti problemi di integrazione europea, senza peraltro riuscire a risolvere molto, o ancora, disquisiscono sul problema delle radici europee, e a seconda della propria parte politica, privilegiano generalmente la cultura greca, se orientate a sinistra; la cultura cristiana, se di centro; il paganesimo romano e/o il cristianesimo più bigotto se orientate a destra (salvo a discutere sulla questione dello Jus).
Senza dubbio il quadro di riferimento storico, il “da dove si viene” è importante ma, ritengo che chi vuol porre seriamente le basi di tale problema, non può peccare di partigianeria, e fermare con colpevole interesse, il tempo della storia d’Europa solo a quota 1000, zero, o 1500 avanti Cristo.
Le radici degli europei vanno indagate in senso equanime e totalmente, fino al paleolitico e, in tal senso riviste alla luce delle recenti scoperte e dei recenti studi (Childe, Renfrew, Coles), questo oltre che per senso di verità e giustizia lo ritengo utile a ritrovare la necessaria modestia, il giusto orgoglio e la voglia di grande libertà, per ricominciare la nostra storia come cittadini europei.
Allora scopriremo che proprio dall’Europa paleolitica ci arriva un simbolo vivente dello spirito europeo di libertà. Infatti, nella primordiale foresta polacca di Bialowieza vive l’unico animale superstite di cui parlano i disegni di molte caverne dell’età della pietra il bisonte europeo. Ebbene, al contrario di tigri, leoni o elefanti, nessuno è mai riuscito a domarlo.
Una sovranazionalità, una unione tra nazioni, non ha precedenti nella storia del mondo, ed è evidente che neppure una cultura, in quanto generatrice e/o espressione di quella, si sia mai potuta creare, per tanto è proprio in Europa che oggi c’è il maggiore bisogno di creatività, di invenzione, di vitale cultura.
Ma fino ad ora, molto poco è stato l’interesse dei nostri intellettuali, e più in generale degli intellettuali ed artisti europei, alla costruzione dell’Unione.
Il maggior risultato, per i nomi dei firmatari, lo troviamo in tre “manifesti” usciti nell’anno delle seconde elezioni europee.
Il primo, in ordine di pubblicazione, ha per titolo “Per una cultura europea” e porta le firme di 29 uomini di cultura, tra i quali Argan, Moravia, Enzensberger (75).
Il secondo manifesto è il risultato di un convegno tenutosi a Venezia nel marzo ’84, e voluto dall’allora eurodeputata Maria Antonietta Macciocchi; in questo caso gli intellettuali partecipanti provenivano dai Paesi della Comunità e da alcune nazioni dell’Europa centrale (impropriamente definite dell’Est), tra i nomi più noti: Borges, Glucksmann, Burgess (76).
Terzo documento inerente la cultura europea, e segnatamente il cinema europeo, è una lettera aperta indirizzata ai neoeletti eurodeputati della sinistra italiana, ed è firmata da 43 registi italiani: da Antonioni a Scola, da Comencini a Rosi, dai fratelli Taviani alla Wertmuller (77).
Tutti e tre gli appelli, pongono in modo sostanziale il problema di una nuova politica culturale, non più su scala nazionale, bensì europea, cosa finora trascurata da molti europeisti e mai fattivamente pensata dai singoli intellettuali; l’idea guida è che l’Europa non può solo essere un grande mercato o sede di produzione culturale indotta dall’esterno, e dagli Stati Uniti in particolare, pertanto, si auspica la creazione di fondi e nuove strutture europee coordinatrici delle politiche culturali ed educative dei diversi paesi.
In quest’ultima frase e posizione viene fuori l’irrisoluzione e la carenza fondamentale di questi appelli; si continua a pensare all’Europa come possibile unità nella diversità.
L’illogicità di tale pensiero, nell’attuale fase storica e con la minima portata teorica dei suddetti manifesti, consiste nel fatto che le odierne nazioni europee vengono da una conflittualità reciproca che li ha portati, fino a tempi non troppo lontani, a combattere guerre fratricide. Si viene da nazionalismi decantanti la loro diversità come reciproca inconciliabilità e pertanto parlare di Europa solo in termini di coordinamento delle diversità significa continuare l’opera nichilista e suicida delle culture nazionali europee e non realizzare mai l’Unione.
Prova ne è che fino ad ora la cultura americana, la lingua inglese, il dollaro, hanno unito gli europei più di quanto le culture europee siano riuscite a unirsi tra loro.
Ciò è talmente vero da spingere qualcuno a pensare a vie di fatto e proporre anziché l’Unione europea, la formazione degli Stati Uniti d’America e d’Europa.
In realtà, dice Alberoni, “in Occidente si è già costituita un’entità politica, economica e culturale che non è uno stato‑nazione, che non ha consistenza giuridica, ma che però esiste: è l’insieme dei paesi europei e degli Stati Uniti, in cui gli Stati Uniti sono la nazione egemone e gli altri satelliti. Questo insieme sociale ha certamente delle tradizioni comuni, ha una storia comune ed oggi è sempre più unificato anche economicamente e linguisticamente”.
Allora considerando che l’Europa “non ha nessuna forza culturale, etico‑politica nuova” perché andare sempre più alla deriva accettando “di diventare una colonia degli Stati Uniti, sempre più dipendente? (…) Perché gli europei devono accettare un dominio esercitato da un’altra nazione, da un’élite politica che non contribuiscono in alcun modo ad eleggere?” (78). Tanto vale, appunto, creare un sistema politico ed istituzionale euroamericano.
Ho citato queste considerazioni perché esemplarmente chiarificatrici di un comportamento, non so fino a che punto conscio, diffusissimo in tutta la nostra società dove, soprattutto nei ceti medi e alti, e di qualsiasi parte politica, non si contano più i ragazzi mandati a studiare in scuole ed università americane, o comunque di lingua inglese.
Operato così un vero e proprio svelamento della risultante di tali tendenze degli europei (per quanto paradossale possa sembrare), si è costretti subito dopo ad un supplemento di veglia: infatti, se gli Stati Uniti d’America e d’Europa possono costituire una logica via d’uscita alla situazione stagnante nella quale si trovano gli europei, una tale eventualità non interessa affatto gli americani;
Di ciò è obbligato a rendersi conto poco dopo (79) lo stesso Alberoni, al quale non rimane altro che ritrattare completamente la sua tesi: “I paesi europei sono il passato che i cittadini americani si sono gettati alle spalle, ciò che temono e ciò che disprezzano. Fino alla seconda guerra mondiale ne sentivano ancora l’attrazione (e ne avevano paura) ma oggi non più. Resta solo un bonario disprezzo. Per questo una associazione politica non può essere presa sul serio. Gli europei devono rendersi conto della profondità di questa frattura che tende ad allargarsi, non a restringersi.
In Europa la gente immagina un tipo di rapporto con gli Stati Uniti che non esiste. Come se vi fosse un unico sistema, l’Occidente, di cui fanno parte diversi paesi e, in posizione eminente, gli USA. Invece, c’è un unico centro, un unico potere, un’unica egemonia, quella americana. Di questo gli americani sono perfettamente convinti. Parlo di quello che crede la gente comune, il popolo americano. Gli europei stanno scivolando in una posizione di vassallaggio e d’impotenza, si stanno trasformando lentamente in colonia, con l’illusione di essere dei pari. E questo aumenta ulteriormente la distanza: gli americani considerano il debole, il povero, il vinto, anche un inetto, uno moralmente indegno.
Nel rapporto con gli Stati Uniti ed i paesi europei c’è, da un lato, l’orgoglio della superiorità, dall’altro il senso della decadenza”80.
Ritrovarsi nuovamente di fronte agli europei malati, non fa altro che evidenziare ancora una volta l’unica strada percorribile: quella della guarigione degli europei attraverso la ricostituzione di una Identità.
Su questa via ci troviamo immediatamente a dover superare un’errata schematizzazione che da troppo tempo va avanti penalizzandoci, anche inconsciamente, quella di Oriente/Occidente, trasformatasi nel dopoguerra nella cosiddetta “politica dei blocchi”.
L’Europa non è, in essenza, né l’uno né l’altro, l’Europa non è Occidente e tantomeno si contrappone ad un Oriente, l’Europa è Cuore.
Tra gli infiniti emisferi che possiamo tracciare sul globo terrestre, se ne trova uno, avente come polo un punto leggermente a Sud‑Est di Nantes, in Europa, che contiene il 90% delle terre libere dai ghiacci, il 98% dell’attività industriale del mondo, il 94% dell’umanità.
Ecco, in questa felice coincidenza del senso e dell’agrimensura l’Europa può ritrovare se stessa: non certo eurocentrismo ma, cuore del mondo umanizzato, l’Europa come Centro di Umanità. Federalismo contro totalitarismo ed imperialismi. Ed in questo bellissimo “segno” del calcolo ritroviamo anche la frase di Hofmannsthal sotto la cui egida ho aperto questo capitolo: “Non l’Europa è postulata, ma col nome di Europa l’umanità (col nome di umanità l’onnipresenza divina Dio stesso)”.
Forti di questo ritrovato senso spirituale andiamo ora a sciogliere il nodo principale che soffoca l’Europa, quello del passaggio dalle culture nazionali europee alla cultura sovranazionale dell’Unione europea.
Come ricorda Gluksmann: «Oggi esiste un’innegabile comunità di valori – i valori democratici, di civiltà di massa, di consumo, sono comuni a tutti gli europei – ma non esiste una comunità culturale. Il francese vive la cultura francese come l’italiano vive la cultura italiana, come il tedesco, ripiegato su se stesso, vive questa assenza di cultura tedesca dovuta al difficile rapporto che i tedeschi hanno con il loro passato. Questi popoli profondamente colti, componenti essenziali dello sviluppo culturale europeo, non si capiscono meglio oggi di quanto non si intendessero alla fine della seconda guerra mondiale”.
La guarigione europea è insomma legata ad un problema di incomunicabilità ma non è un problema di semplice comunicazione, di lingua di comunicazione, è soprattutto una questione fondativa di cultura europea o, più esattamente, di cultura dell’Unione europea, e non più (o non solo) di cultura francese, inglese, italiana, tedesca, spagnola, e così via.
Se la questione fosse semplicemente legata ad una lingua di comunicazione, non ci sarebbero dubbi: tanto valeva approfittare della grande diffusione del francese venti o trent’anni fa, tanto vale approfittare dell’egemonia della lingua inglese oggi.
Ma non è così, una lingua non presiede solo alla comunicazione, essa porta con sé anche tutta la cultura, gli ideali, lo stile di vita, le tradizioni, il modo di pensare, di agire e l’egemonia del popolo che l’ha formata, quindi nessuno dei popoli europei può abbracciare come lingua ufficiale europea la lingua che, per quanto diffusa sia, potrebbe rappresentare solo uno dei paesi europei, con un enorme danno per tutti gli altri e favorendo, piuttosto che la costruzione dell’Europa, la sua distruzione e/o colonizzazione totale.
L’Unione europea con tutti i suoi componenti di pari diritto e dignità consiste nella prima sovranazionalità del mondo e non esistono esempi precedenti di cultura sovranazionale in termini statali. Da qui la necessità di una vera e propria opera di fondazione, la quale peraltro costituisce un passaggio storicamente determinato, infatti, dopo la cultura e la lingua dei padri (il latino), dopo la cultura e la lingua materna delle nazionalità, ora, per l’unione sovranazionale degli europei dobbiamo pensare la lingua e la cultura come figlia.
L’idea della lingua e della cultura come figlia, come nuova incarnazione spirituale, come nuova tappa del civismo europeo, come punto d’appoggio per risollevare democraticamente il mondo e liberarne le potenzialità represse; tutto queste, ed altre ottime opportunità, ad esempio politiche, economiche e occupazionali, sociali sono rappresentate dalla cultura esperantista82.
Unica cultura sovranazionale esistente e vivente; è nell’adesione ad essa che le culture e le lingue europee si salvano e la cultura europea trova fondazione. Ponendo la giusta base culturale affinché si possa essere nella storia non in quanto americani, cinesi, francesi, inglesi, russi e così via ma, essere nella storia in quanto uomini.
In considerazione di questo fatto ci troviamo in presenza di una rivelazione poiché, in rapporto ad una assenza dell’europeo come lingua e cultura, attraverso le cifre dei nomi si evince una misteriosa ed ultracentenaria equazione E = E, Esperanto = Europeo , l’esperanto È l’europeo .
Generalmente arrivando a questo punto dell’esposizione delle mie idee non faccio in tempo a parlare di un’altra, questa volta inquietante equazione cifrata, Z=Z, che di converso potrebbe inverarsi, quando, immediatamente, scattano tra i miei interlocutori due opposte reazioni, quelle del buon europeo, curioso e vivo, che subito incalza con domande a raffica, lasciandoti solo quando ha in mano anche un po’ di titoli di testi e indirizzi; e quello dell’europeo decadente che ha delle reazioni imprevedibili, delle quali spesso sono rimasto davvero sconvolto e, se ne sono uscito vivo, è solo dovuto ad una protezione superiore e divina, di cui non posso nascondere l’esistenza:
Le sue palpebre cominciano ad urtarsi con un ritmo vorticoso, le cornee si dilatano, sopra, sotto, in fuori, assumendosi come emisferi che subitaneamente si colorano, o di nero o di rosso, i capelli si ergono, uno per uno, come incredibili grattacieli, la bocca si dilata e comprime, come spasmi, ma nulla voce, è una sorta di bava vischiosa e nera che invece ne fuoriesce, solo in un secondo momento emette scariche di urlate parole che, per la velocità, sono riuscito solo ad identificare in una sorta di americano gergale alla rovescia e niente più. La pelle si gonfia, si sgrana e grossi foruncoli ne escono eruttanti, come piccoli vulcani, un magma nero e bruciante. Le dita delle mani si allungano a divenire rami nodosi alle cui punte balenano lunghe unghie acciaiose che il vivente‑morto punta verso di me, alla gola. Velocemente arretro:
«Patro nia, kiu estas en la cielo…» ed improvvisamente nuvole di luce smeraldina appaiono. Veloci si raccolgono su di noi con un rumore di tuoni assordanti, spaventato, il viventemorto si blocca, e allorché le nubi si diradano una stella cometa dalla tripla coda e dal verde accecante appare, facendolo fuggire terrorizzato.
Come mai questo tipo di europeo ha una simile reazione?
In passato l’Esperanto ha conosciuto varie persecuzioni (83), fu proibito in Germania, dove le proprietà esperantiste furono confiscate dal III Reich ed analoga sorte ebbe nei Paesi entrati nell’orbita nazista, prima la Spagna durante la guerra civile e l’Austria dopo l’Anschluss, come anche nella Russia staliniana. In Italia, lo scioglimento delle organizzazioni esperantiste fu decretato dopo la promulgazione delle leggi razziali dal MinCulPop. Ma, ancora oggi, una serie di rapporti perversi ne impediscono la piena accettazione.
“Le relazioni fra i diversi fattori che contribuiscono a tale misconoscimento sono difficilmente precisabili. Si può dire che interessi particolari (o riflessi di difesa), talvolta individuali, più spesso collettivi, talora coscienti, generalmente incoscienti, di natura sociale o politica, o anche economica sfruttino spinte affettive (angoscia latente, problemi d’identità, paura del ridicolo), rinforzate da malintesi d’ordine cognitivo per impedire lo studio sul terreno (field study) del fenomeno socio‑linguistico “Esperanto”. I mass media contribuiscono ad amplificare l’azione degli altri fattori, diffondendo largamente nella popolazione i modelli di atteggiamento e le razionalizzazioni che, all’inizio, erano le armi degli interessi particolari minacciati.
In questa congiunzione d’influenze diverse, i fattori psicologici non sono i primi. Ciò è confermato dal fatto che la maggioranza dei fanciulli e degli adolescenti a cui si spiega ciò che è l’Esperanto hanno all’inizio una reazione favorevole, fino alla manifestazione esplicita d’imparare questa lingua. Eppure il complesso “robot” esiste in essi come negli adulti. Perché dunque fino a 16-17 anni esso non si proietta, o quasi, sull’Esperanto?
La spiegazione più plausibile è che questi giovani, meno esposti ai giornali e alla “cultura” degli adulti in genere, non hanno ancora subito gli effetti della disinformazione senza cui gli stimoli affettivi non potrebbero essere messi in azione.
Un sondaggio effettuato al “Salon de l’Etudiant” a Parigi dal 14 al 15 marzo 1984 conferma questa interpretazione. Gli atteggiamenti negativi verso l’Esperanto sono stati notati soprattutto non nelle persone che ignoravano il significato della parola o per le quali essa stava ad indicare vagamente una “lingua internazionale”, senza ulteriori specificazioni, ma nei soggetti che potevano darne una definizione meno incompleta e più “precisa”. Costoro – che credevano sapere, ma che in realtà erano imbottiti di contro-verità – hanno citato come fonti della loro informazione: la stampa, la radio, gli amici, gl’insegnanti, i parenti e i colleghi di lavoro, o hanno dichiarato che si trattava semplicemente di “cultura generale”.
Come che sia, la convergenza dei diversi fattori in gioco finisce per creare una immagine che fa da schermo fra l’Esperanto reale e la persona che si pronunzia su di esso.
Per la verità, si tratta forse più di un prisma che di uno schermo. La deformazione è dovuta ad un effetto cumulativo. Se si prende ogni caratteristica isolatamente, lo scarto fra l’immagine e la realtà è una semplice sfumatura. La linea di demarcazione che separa, “universale” da “internazionale”, “è stato creato” da “si è forgiato a poco a poco”, “porterà immediatamente la pace” da “può favorire il dialogo” non è di necessità evidente e colui che insiste perché sia rispettata può passare da pedante o diffidente. Ma per quanto comprensibile, l’atteggiamento che consiste nel disinteressarsi di tutte queste sfumature non è ammissibile né sul piano scientifico, perché impedisce di percepire il reale, né sul piano dell’equità: un errore giudiziario resta un errore giudiziario anche se, per ciascun indizio, la polizia si è ingannata solo di poco. Considerare come sognatori, linguisticamente ignari, o imbecilli persone il cui comportamento è del tutto ragionevole, per il solo fatto che fanno uso di un mezzo che risponde molto bene ai loro fini e che non fanno male a nessuno, non è degno d’una società cosciente e civile che parla alto e forte di dialogo fra le culture, di tolleranza, di mutua comprensione e di rispetto delle diversità. Nessuno, si potrà dire, ha mai trattato gli esperantisti da imbecilli. Direttamente no. Ma non si esita a scrivere che i fautori dell’Esperanto sono utopisti secondo i quali l’adozione di una lingua “universale” metterebbe fine ai conflitti fra gli uomini. Questo non significa pronunciare nei loro confronti un verdetto di stupidità? Non significa sottintendere che costoro sono incapaci di trarre le conclusioni che s’impongono dai conflitti familiari, sociali e politici che si svolgono in un medesimo ambito linguistico, o dalle violenze che possono manifestársi in regioni monolingui come l’Irlanda del Nord, il Libano e l’America Centrale? Un simile atteggiamento di sufficienza può ben essere generalmente incosciente e abbastanza nascosto perché il soggetto stesso non se ne accorga, ma non per questo è meno reale.
Vorrei qui citare un fatto significativo. Mi è capitato d’incontrare, nel corso della mia ricerca, un alto funzionario internazionale che conosceva l’Esperanto fin dalla fanciullezza e aveva partecipato, in gioventù, a numerose riunioni in cui si faceva uso di questa lingua. Quando gli ho chiesto o di esporre per iscritto la sua esperienza dei diversi modi di comunicazione linguistica, o di permettermi di citarlo, egli ha rifiutato chiedendomi di non pubblicare nessuna informazione che consentisse d’identificarlo. «Tengo alla mia carriera e alla mia reputazione>, egli mi ha detto «Se si sapesse che io credo nei valori dell’Esperanto, la cosa non potrebbe non danneggiarmi». Allo stesso modo un professore che conosceva perfettamente la lingua di Zamenhof, da me incontrato in un Paese in cui questa gli era molto utile, mi ha pregato di non ricordare pubblicamente la sua appartenenza al mondo degli Esperantisti: queste due persone ritenevano l’Esperanto superiore agli altri mezzi di comunicazione internazionale, ma, essi mi hanno detto, le circostanze essendo quelle che sono, si tratta di una constatazione che preferiscono tenersi per sé.
Si tratta di viltà o di realismo? Giudicherà il lettore. Quale che sia la sua conclusione, egli vedrà senza dubbio nel loro comportamento un aspetto interessante dell’immagine dell’Esperanto: quest’immagine ha un effetto discriminante. A chi si dichiara pubblicamente favorevole all’Esperanto viene ipso facto affibbiata un’etichetta di disprezzo, senza che il giudizio negativo della società venga ragionato. In realtà si tratta di un puro e semplice pregiudizio. Appartenere alla collettività esperantista costituisce una tara, una malattia vergognosa come, in certi tempi e luoghi, l’essere ebreo o baha’i, o avere del sangue africano nelle vene. L’atteggiamento di una parte considerevole della società, e soprattutto dell’intelligentsia occidentale, è, senza che gl’interessati se ne rendano conto, radicalmente contrario allo spirito dei diritti dell’uomo. Una presa di coscienza di questa contraddizione fra un ideale a cui si aderisce intellettualmente e un atteggiamento discriminante verso una collettività che non è affatto macchiata dei difetti che gli si attribuiscono sarebbe sano e saggio da parte di tutti, per il semplice rispetto degli altri, anche se non si ha una simpatia particolare per l’Esperanto” (84).
Vorrei comunque sgombrare definitivamente il campo da possibili dubbi sulla validità della cultura esperantista non attraverso una mia testimonianza bensì, con quella di un famoso filosofo neopositivista, Rudolf Carnap, la cui autorità culturale nessuno potrà mettere in dubbio.
Racconta Rudolf Carnap nella sua autobiografia85: “All’età di circa quattordici anni trovai casualmente un opuscoletto dal titolo The World Language Esperanto e rimasi subito affascinato dalla regolarità e dalla ingegnosa costruzione di questa lingua, che appresi con ardore.
Quando pochi anni dopo potei assistere ad un congresso internazionale di Esperanto, mi sembrò miracolosa la facilità con cui seguivo le conversazioni e le discussioni negli ampi incontri pubblici, e con cui mi esprimevo privatamente con gente di molti altri paesi, mentre non ero in grado di sostenere conversazioni in quelle lingue che avevo studiato per tanti anni a scuola.
Uno dei momenti più alti del congresso fu la rappresentazione della Iphigenie di Goethe in una traduzione in Esperanto: fu per me una eccitante e edificante esperienza ascoltare questo dramma ispirato dall’ideale di un’unica umanità, espresso col nuovo mezzo che rendeva possibile la comprensione e l’unità di spirito di migliaia di spettatori di molti paesi.
Dopo la prima guerra mondiale ebbi alcune opportunità di esaminare l’uso pratico dell’Esperanto, la più ampia delle quali fu nel 1922, in occasione del congresso di Esperanto di Helsinghors in Finlandia. Lí conobbi uno studente bulgaro e per quattro settimane restammo quasi sempre assieme e diventammo molto amici; dopo il congresso viaggiammo e girammo attraverso la Finlandia e le nuove repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, ci trattenemmo presso ospiti esperantisti e ci mettemmo in contatto con molte persone di questi paesi.
Parlavamo di ogni tipo di problemi, della vita pubblica e di quella privata, sempre naturalmente in Esperanto, che per noi non era un sistema di regole, ma semplicemente una lingua viva.
Dopo esperienze simili non possono prendere molto sul serio le argomentazioni di coloro che sostengono che un linguaggio ausiliario internazionale possa essere adatto per questioni di lavoro e forse per le scienze naturali, ma non possa essere adatto come mezzo adeguato di comunicazione negli affari personali, nelle discussioni sulle scienze sociali ed umane, per non parlare della narrativa e del teatro. Mi sono reso conto che la maggior parte di coloro che assumono questa posizione non hanno avuto esperienza pratica di tale lingua”.
Rudolf Carnap quindi ci testimonia, autorevolmente, un Esperanto lingua viva nel 1922, allorché questa cultura aveva appena trentacinque anni di vita; i buoni europei comprenderanno bene quanto possa esserlo oggi contandone quasi il triplo e come sia ormai tripla anche l’ignoranza dei suoi denigratori.
Ma questa è una battaglia che si ripresenta regolarmente ogni volta che c’è un avvicendamento culturale e linguistico globale, si pensi a Cicerone che doveva incoraggiare i suoi concittadini all’uso del latino anziché del greco “parecchi infatti, eruditi nelle cose greche, non potevano comunicare con i loro concittadini quello che avevano appreso, perché non avevano fiducia che potesse essere detto in latino ciò che avevano ricevuto dai Greci” (86). Oppure si pensi alle pesanti offese di Dante: “A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità” (87).
Una cosa deve essere comunque chiara: la comunità internazionale esperantista non ha affatto bisogno degli europei.
La diaspora esperantista ha superato indenne la boa del secolo nel 1987, è giovane e sempre più vivace. Non sono riusciti a distruggerla né le persecuzioni naziste, né quelle staliniste, né le montagne di menzogne scaricate su di essa da pseudointellettuali.
Siamo noi, tutti noi europei, ad aver bisogno di quest’unica cultura transnazionale per continuare a vivere la nostra storia civile.
Sapendo, peraltro, che l’Esperanto è anche linguisticamente, straordinario. Ad esempio, per avere l’identica conoscenza linguistica di 1500 ore di lingua inglese ne servono appena 150, di Esperanto, così come di circa un decimo inferiore è il tempo d’apprendimento dell’Esperanto nei confronti di qualsiasi altra lingua; come anche inferiore del 20, 50% è il tempo di apprendimento delle lingue straniere se si ha l’accortezza di studiare in precedenza un po’ di Esperanto88.
Allora, tornando alla cultura europea, non si può non provare e mettersi in contatto con i vari centri di cultura esperantisti in Europa ed in tutto il mondo o con gli organi della stampa esperantista o, per chi è radicale, con l’associazione radicale “Esperanto”, oppure comprarsi a meno di diecimila lire il Pasporta Servo con l’elenco degli esperantisti di tutto il mondo disposti ad ospitare gratuitamente altri esperantisti, e mettersi in viaggio, magari con un buon libro di poesie o un bel romanzo in esperanto89.
Io però sono convinto che per quanto riguarda la nostra idea fondativa e costruttiva della cultura europea, la discriminazione contro la cultura esperantista dettagliatamente descrittaci dal Piron non sia il solo ostacolo da superare, ce n’è un altro, credo ancor più problematico psicologicamente e costituito dall’automatico rientro dell’Europa nella storia.
Questo pensiero, molti europei non riescono a sopportarlo. Equivarrebbe a trarsi fuori dalla malattia della decadenza, divenire “adulti”.
Ed essi, ormai, perseguendo ostinatamente l’ideologia della scimmia, si sono ricavati il loro posto di “benessere”, quali ottimi vassalli, valvassori, valvassini dell’Impero americano, e ripensarsi come portatori di nuova storia e civiltà li angoscia in modo terribile.
Mai e poi mai farebbero di nuovo i conti con la vita, e per questo accettano volentieri l’essere dei viventi‑morti o, al meglio, delle ottime scimmie imitatrici.
In ogni caso se queste tristi figure mancheranno od ostacoleranno ulteriormente l’appuntamento con questa nuova tappa del civismo europeo si renderanno complici di fronte alla Storia ed al Mondo di un enorme genocidio linguistico e culturale e di un non meno grave male morale: “e cioè, da un lato, un favore ingiustificato, e un ingiustificato vantaggio nei «punti di partenza», enormemente più favorevoli, assicurati a quei popoli – già per altro verso largamente avvantaggiati – che hanno come lingua materna quella che serve alla comunicazione internazionale; e, dall’altro, una nuova discriminazione per le masse, che non hanno i mezzi per imparare l’inglese se non in forma estremamente elementare (e perciò appunto discriminante)” (90). Ma quest’ultimo aspetto insieme a quello glottofagico della lingua e della cultura angloamericana (91) persino gli intellettuali ed i partiti più di sinistra, che delle masse e dei ceti meno abbienti dovrebbero essere accaniti difensori, sembrano ignorarlo (chissà, forse non era proprio una battuta quella di Flaiano, quando diceva che i comunisti vogliono fare la rivoluzione con i soldi degli americani).
Così ormai da decenni tutti i mass media non fanno che propinarci informazioni sugli Stati Uniti d’America, sul suo Presidente e sugli americani, continuando ad organizzare il consenso e la colonizzazione.
Sappiamo tutto dei rnedici e degli scienziati americani, dei poliziotti americani, delle casalinghe americane, dei pupetti americani, dei computers dei pupetti americani, delle tradizioni americane, delle università americane, delle guerre americane, della giustizia americana, degli attori americani, scusate, delle “stelle” americane. Già, tutto ciò che fanno gli americani è “stellare”. E noi restiamo a guardare.
Cento milioni di persone in più degli U.S.A. (come anche dell’U.R.S.S.) in Europa, senza contare gli abitanti dell’Europa Centrorientale, e restiamo a guardare.
Come senza vita, senza vitalità. Come drogati. Contenti di avvicinarci sempre di più alla nostra dissoluzione culturale: “même avec la maitrise de la langue des patrons, on reste un domestique”.
Cosa conosciamo di quei dodici popoli, vicinissimi e non al di là di un oceano, coi quali ci stiamo unendo sempre di più, e dei tanti altri coi quali vorremmo essere uniti maggiormente? Praticamente nulla! Se non per volontà personali.
E’ inammissibile.
Tutta questa infame decadenza l’arte non può più tollerarla.
Senza vita protagonistica non c’è storia e senza storia non può esistere arte e tantomeno architettura, poiché come l’arte, e forse più di essa, “l’architettura eterna ed esalta qualcosa. Per questo, là dove non v’è nulla da esaltare non può esservi architettura”92 né arte.
L’arte deve prendersi cura del vergognoso, decadente presente e della storia, innovando significatamente, parlando nuovamente di grandi mete comuni, piuttosto che continuare a girare a vuoto su vecchi significanti di cui non si capisce più il senso. Saranno conseguentemente quei nuovi grandi significati a partorire nuovi ed adeguati significanti.
Oggi come ieri gli artisti europei possono usare tutte le immagini possibili ed impossibili, tutti gli oggetti possibili ed impossibili, tutti i mezzi possibili ed impossibili, per la loro arte, possono essere di eccezionale bravura, ma trovano inevitabilmente una società nazionalmente e nazionalisticamente bloccata che è troppo debole, che è inetta, incapace di farsi valere e di far valere l’arte dei suoi artisti. Come suonano ancora amare e con drammatica attualità le considerazioni di un grande artista come Lucio Fontana: «Ma tu vedi, però, adesso a cosa siamo ridotti? Che tutto il prodotto, ormai, è suggerito dagli americani. Se io dico che ho fatto i neon, questo signore che sta facendo i neon adesso, se io faccio i neon, dice che io sono un sottoprodotto degli americani. E loro non accetteranno mai che tu hai fatto i neon vent’anni fa, non io, ma anche Vantongerloo l’ha già fatto; (…) Pollock è contemporaneo a me, vende i quadri a cento, duecento milioni. Lui ha dei quadri del ’52, ’53 che sono imbrattati di colore, io li ho già coi buchi… È molto più importante la mia scoperta che quella di Pollock. Siccome noi non abbiamo i miliardi che hanno loro per fare il lancio, siamo sottoprodotto degli americani, e l’arte fredda con la linea di Manzoni non l’hanno raggiunta ancora, come gesto di libertà, così. (…) lo vorrei, domani, fare un congresso internazionale e aggiornare trent’anni, quarant’anni di pittura e far vedere agli americani che loro non sono in niente precursori, oggi come oggi, dell’arte europea, che loro dicono che l’Europa è finita. Te l’assicuro, che li lascerei lí come un fagiolo»93.
Gli artisti allora devono continuare nella edificazione della cultura europea. Anche per evitare che i Paesi dell’Europa centro-orientale per via del loro rinnovamento saltino dalla “brace” comunista nella “padella” dell’etnolitica cultura angloamericana 94. La giovane cultura sovranazionale esperantista costituisce solo il nocciolo di un nuovo processo semantico, l’esemplare punto di partenza che incarna il meglio degli ideali religiosi ed ideologici liberandoci nel contempo da ogni loro messianismo totalitario.
Gli artisti italiani devono farsi europei; portino nell’Europa l’italianità, l’Europa ne ha bisogno ma, essi devono rinascere come europei.
Gli artisti francesi devono farsi europei; portino nell’Europa l’essenza francese, l’Europa ne ha bisogno ma, essi devono risorgere come europei.
Gli artisti tedeschi devono essere europei; portino nell’Europa la loro operosità, l’Europa ne ha bisogno ma, essi devono reincarnarsi come europei, il loro cruccio della Germania divisa è ora il cruccio di tutti gli europei, è un mio, personale dolore.
Gli artisti della Gran Bretagna devono essere europei; portino nell’Europa le loro capacità, l’Europa ne ha bisogno ma, essi devono farsi europei. E così tutti gli artisti delle altre nazioni europee. Devono rinascere europanoj!
L’arte non tollera furbizie né strategie, solo una storica verità la commuove.
Ed oggi i buoni europei incarnano con l’opera di fondazione e costruzione della cultura europea esattamente una verità storica. Improcrastinabile.
In Europa tutte, dico tutte, le arti non potranno riconquistare un diritto alla propria libertà, alla vita e alla storia se non avranno precedentemente o parallelamente riconquistato la parola.
Chi nomina, domina. E viceversa.
Scrive Agostino di Ippona nel De Civitate Dei, 410 circa: “At enim opera data est, ut imperiosa civitas non solum iugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret, per quam non deesset, immo et aLundaret etiam interpretum copia” (95). Pertanto, lo stato dominante impone ai popoli vinti non solo il proprio governo ma, per avere poi la pace sociale, anche la propria lingua, e per questo fa in modo che abbondino sempre gli interpreti.
Vecchia storia quindi, quella della colonizzazione linguistica e culturale ma, il servilismo e la viltà di molti nostri intellettuali è tale che, pur sapendo, vietano alla loro mente di ricordare.
L’attuale dominazione americana, precedentemente definita psicoeconomica, ha sviluppato proprie modalità di colonizzazione, certamente diverse da quelle dell’imperialismo romano al quale pensava S. Agostino scrivendo quanto sopra, ma il risultato non cambia, e la colonizzazione linguistica e culturale americana è arrivata al punto di volerci trasformare tutti in interpreti. Compresi coloro che sono usciti vincitori dalla II Guerra Mondiale, come i francesi, i quali sono consci della alienazione linguistica e culturale 96, ma guardano ancora nostalgicamente e scioccamente ai vecchi fasti della loro cultura, quando occupava il posto della cultura angloamericana di oggi (97).
Il grottesco è che taluni collaborazionisti, nuovi Pétain nel campo dell’intellettualità, lavorino perché la micidiale colonizzazione americana delle menti si attui al più presto.
Ora invece, nella cultura, si apre una nuova via al progresso, quella dell’integrazione culturale europea come premessa democratica d’integrazione culturale mondiale.
Questo dopoguerra vede accomunati i paesi europei, vincitori e vinti, nell’umiliazione dell’assoggettamento agli U.S.A. e all’U.R.S.S., ma oggi, trova anche degli europei sensibili alle libertà democratiche, ai diritti civili e culturali, alle sorti dei più deboli e dei meno fortunati. Tali sensibilità devono portare questi europei ad essere protagonisti di una nuova primavera culturale, innanzitutto per essi ma, anche per tutti gli altri paesi ed etnie del mondo che, magari più poveri e deboli, sarebbero altrimenti vittime, data la globalizzazione dei problemi, di un ennesimo colonialismo, questa volta postmoderno e trasversale. Superare l’antico giogo della legge di natura, del chi domina nomina, sposando la legge della buona cultura dove è il partecipare che addiviene al nominare, costituisce, in chiave universalistica, la saggia e sana risposta ai colonialismi ed agli anticolonialismi.
È necessaria pertanto la creazione di nuove metodologie di lotta e di creatività. La creazione di una nuova avanguardia, con connotazioni linguistiche ed ideali diverse da quelle delle avanguardie storiche o dalle neoavanguardie degli anni ’70, un’avanguardia cresciuta e definentesi in modo più articolato, completo e responsabile. Un’avanguardia matura ed adulta che cavalchi il contemporaneo e la mondializzazione.
Un’avanguardia, continuando nella metafora militare, divenente esercito.
“Lo stato estetico ha una sovrabbondanza di mezzi di comunicazione, insieme con una ricettività agli stimoli e ai segni. È il culmine della comunicatività e della traducibilità fra esseri viventi, è la fonte delle lingue”98 pertanto il perno propriamente linguistico di questa nuova rivoluzione culturale pacifica è naturale in modo perfetto.
E non è da escludere per il tramite del rinnovamento linguistico, il rinnovamento, oltre che delle arti, anche delle scienze. L’esempio dell’Umanesimo è lì a testimoniarcelo.
NOTE
(68) In Trent’anni di vita del Movimento federalista europeo, a cura di L. Levi e S. Pistone, Milano 1973, pp. 45‑65.
(69) Ibidem, p. 58.
(70) Karl Otto Apel, L’idea di lingua nella tradizione dell’Umanesimo da Dante a Vico, Bologna 1975, p. 155.
(71) F. Fornari, La malattia dell’Europa, Milano 1981, pp. 105‑106.
(72) Vedasi, a proposito del ruolo nichilista e suicida del pacifismo in Europa, La forza della vertigine, di A. Glucksmann, Milano 1984.
(73) F. Fornari, op. cit., pp. 177‑178.
(74) A. Spinelli, Politica marxista e politica federalista, del 1942‑43 e ripubblicato in I1 progetto europeo, Bologna 1985.
(75) Pubblicato da la Repubblica del 28.3.1984.
(76) Il manifesto prodotto va sotto il nome di Dichiarazione dei 70 intellettuali, a Venezia e lo si trova tra i Documenti di seduta del Parlamento europeo in data 17.4.1984.
(77) Ne la Repubblica del 28.7.1984 con un articolo titolato l’Europa salvi il cinema.
(78) F. Alberoni, la Repubblica, 8.5.1984, il titolo dell’articolo: Gli Stati Uniti Euro‑americani.
(79) F. Alberoni, La Federazione euro‑americana, la Repubblica, 22.5.1984.
(80) F. Alberoni, La nazione americana, la Repubblica, 23.8.1984.
(81) André Gluksmann in Comunità europee, aprile 1984, p. 21.
(82) Ho già indagato questa tesi in alcune riviste specializzate su federalismo ed europeismo: L’Esperanto, una lingua che unisca sul n° 1‑4 1981 e Alla mia patria Europa sul n° 1 1983 di Lotta federalista, Roma; Quale lingua per il popolo europeo in Comuni d’Europa, febbraio 1983, Roma.
Poi ancora in Anoir, Eblanc, lronge, Uvert, Obleu, n° 7, Roma 1983 con il titolo Per un’arte europea; L’avanguardia si fa esercito: la fondazione della cultura dell’Unione europea, in Ipotesi d’artista, Bologna 1985, pp. 91‑95; Lingua d’Europa? Io rilancio l’Esperanto, l’Unità del 23 gennaio 1989.
L’arte comunque si era già espressa in favore dell’esperanto attraverso diverse grandi personalità, come ad esempio Leone Tolstoi: «I sacrifici che l’Esperanto richiede agli uomini sono cosi piccoli e i risultati c he se ne possono trarre cosi grandi che non ci si può rifiutare di farne la prova», o il futurista Pino Masnata: «Si potrà imporre domani all’Europa unita il vecchio latino come si è riusciti ad imporre in Israele l’anno ebraico? Personalmente spero sempre nella chiara semplice facile lingua artificiale universale (scioccamente ostacolata) inventata dall’oculista polacco Ludovik Zamenhof. L’Esperanto», in Poesia visiva, Roma 1984, p. 54.
(83) Si vedano in proposito i testi di Ulrich Lins Die gefahrliche Sprache, Bleicher Verlang, Gerlingen 1988 e Lingvo internacia en perspettivo, versione bilingue esperanto‑giapponese, Tokio, JEI, 1982; AA. VV. Le lingue pericolose, Quadeno K n° 2, edito dalla Federazione Esperantista Italiana, Milano 1975.
(84) Esperanto, l’immagine e la realtà, qui sono riportate solo 2 pagine, pp. 113‑114, delle 47 tutte interessanti del saggio di Claude Piron. Il testo completo è contenuto nel libro di vari autori, a cura di Andrea Chiti‑Batelli, dal titolo La comunicazione internazionale tra politica e glottodidattica, Milano, Marzorati 1987. Un testo basilare per conoscere il fenomeno Esperanto nella sua realtà ed in molte delle sue sfaccettature; unica mancanza, anche se non molto importante, quella su l’uso dell’Esperanto come lingua ponte nella traduzione computerizzata, un progetto realizzato dalla BSO di Utrecht, potete trovare tutte le spiegazioni iniziali del progetto nel testo di A.P.M. Witkam Distributed language translation. Feasibility study of a multilingual facility for videotex information networks, Utrecht: Buro voor Systeemontwikkeling, 1983, pp. 370, ISBN 90 7073Q 014, ultime notizie in merito possono essere richieste alla BSO/Research, Casella postale 8348, NL‑3503 RH Utrecht.
(85) Arthur Schlipp, La filosofia di Rudolph Carnap, Milano, il Saggiatore, 1974, pp. 69‑70, traduzione italiana de The philosophy of Rudolph Carnap, La Salle, 1963.
(86) Complures enim Graecis institutionibus eruditi ea, quae didicerant, cum civibus suis communicare non poterant, quod illa, quae a Graecis accepissent, Latine dici posse diffiderent. M. Tullio Cicerone, De natura deorum, Libro 1, IV.
(87) Dante Alighieri, Convivio, Trattato primo, Xl.
(88) “… in Germania Federale gli alunni devono obbligatoriamente cominciare lo studio di una lingua straniera dal loro quinto anno di scuola, cioè verso i dieci anni, e il più delle volte solo l’inglese è scelto come prima lingua. I pedagogisti suggeriscono, per migliorare questo insegnamento: o di dare agli scolari un miglior livello di conoscenza della lingua straniera, nel corso dell’anno scolastico, con lo stesso tempo di studio, o di far loro raggiungere il livello attuale più rapidamente, per esempio con quattro ore la settimana invece dl cinque. Una soluzione apparentemente facile per dar soddisfazione a entrambi quei due criteri è quella di cominciare lo studio dell’inglese fin dalla scuola elementare e cioè dal terzo e quarto anno di scuola. Gli scolari mostrano allora ‑ alla fine del quinto anno, e anche dopo – un miglior livello degli altri scolari che non hanno fatto questo studio preliminare. Tuttavia il vantaggio di quelli che hanno cominciato più presto lo studio dell’inglese va sempre più diminuendo. E questo significa che anticipare l’inizio dell’insegnamento dell’inglese non produce in realtà nessun guadagno di tempo – né nella teoria, né nella realtà – ma richiede invece un tempo maggiore per raggiungere il livello prefissato come la cibernetica dimostra con rigore matematico. In altri termini anticipare lo studio dell’inglese va a detrimento del tempo disponibile per imparare a contare, a scrivere la propria lingua materna o a imparare altre materie importanti. Contrariamente all’inutile anticipazione dell’insegnamento delle lingue straniere, l’insegnamento propedeutico – inteso nel senso che ora diremo – mira grazie a una preparazione adeguata dello scolaro, a facilitargli lo studio dell’inglese (o di qualunque altra lingua viva). Certo l’insegnamento propedeutico, a partire dalla scuola elementare, richiede anch’esso un certo tempo di studio, così gli esperimenti condotti all’Istituto di Cibernetica dell’Università di Paderborn hanno richiesto, nel terzo e quarto anno della scuola elementare, due ore per settimana, per complessive 160 ore. In base a tali esperimenti più volte ripetuti a Paderborn, si possono dividere gli scolari in due gruppi concorrenti: un primo gruppo che comincia subito lo studio dell’inglese e un secondo che, durante lo stesso tempo, non impara ancora l’inglese, ma segue un insegnamento propedeutico, per cominciare lo studio dell’inglese solo più tardi.
Questo studio propedeutico opera pertanto in modo che l’apprendimento dell’inglese ne è successivamente facilitato Ciò significa che dopo un certo tempo il gruppo che ha beneficiato dell’insegnamento propedeutico supera quello concorrente che ha cominciato subito lo studio dell’inglese: in altri termini, il gruppo che ha beneficiato dell’insegnamento propedeutico guadagna, a partire da un determinato livello di conoscenza dell’inglese, più tempo di quanto non ne ha perduto per l’insegnamento propedeutico.
(…) L’idea di perdere un po’ di tempo per preparare lo scolaro allo studio di una cosa nuova, allo scopo di guadagnarne molto di più successivamente, è già sfruttata da decenni nella didattica delle scienze. In questo campo non s’insegna fin dall’inizio l’oggetto stesso dello studio in tutta la sua complessità, ma si comincia col presentare un modello di esso pedagogicamente adeguato. Un tale modello deve essere: semplice, perché non disperda l’attenzione su informazioni che non sono essenziali al fine di ciò che s’intende insegnare (si presenterà, ad esempio, durante un corso di biologia, un corpo umano artificiale, senza deformazioni o caratteristiche particolari inutili o svianti l’attenzione dall’essenziale) regolare, per far astrazione dalle “eccezioni”, cioè dalle differenze e anomalie rispetto a un paradigma dato (per esempio, ci si servirà di uno scheletro che abbia una dentizione completa, senza i difetti degli scheletri veri); scomponibile, in modo che si possano insegnare separatamente i diversi elementi (anche se in realtà, nell’oggetto stesso dello studio, essi non sono dissociabili).
In questo senso l’Esperanto costituisce un modello pedagogicamente adeguato per lo studio delle lingue straniere. L’Esperanto infatti è:semplice, ad esempio possiede pronomi personali, ma che restano invariati; regolare, cioè senza eccezioni: per esempio il plurale dei sostantivi e degli aggettivi è sempre caratterizzato dalla desinenza “j”, senza eccezioni (mentre tali eccezioni esistono anche in inglese, che pure è abbastanza regolare per ciò che concerne il plurale: p. es.: man/men, foot/feet mouse/mice, ecc.) scomponibile, perché è una lingua di tipo agglutinante.
Per tutte queste ragioni l’Esperanto costituisce un modello adeguato per l’insegnamento delle lingue straniere.
Ciò significa che un tale modello è molto facile da assimilare e sviluppa nel fanciullo l’attitudine a studiare lingue straniere, giacché gli permette di comprendere, al di fuori di complicazioni inutili, i diversi schemi strutturali entro i quali egli dovrà collocare le diverse lingue, differenziandole, in particolare, dalla propria lingua materna che egli conosce, certo, ma senza averla mai realmente analizzata.
Un tale insegnamento propedeutico delle lingue, proposto dalla pedagogia cibernetica, prepara pertanto a prender coscienza delle caratteristiche essenziali delle lingue in confronto con la propria lingua materna. Esso mette dunque a profitto il valore didattico dell’Esperanto, o, più precisamente, tale metodo didattico dà all’Esperanto il suo valore propedeutico.
Secondo la concezione sopra esposta, gli scolari, dopo aver imparato l’Esperanto come prima lingua straniera, raggiungono un miglior livello nella lingua viva rispetto agli scolari che hanno subito iniziato lo studio di questa: e la differenza fra gli uni e gli altri andrà crescendo, almeno per un certo tempo e con questa andrà crescendo il risparmio di tempo. Pertanto, aggiungere l’Esperanto al programma non appesantisce minimamente il ritmo scolastico e non riduce il tempo che occorre dedicare alle discipline non letterarie, ma può invece migliorare sensibilmente il successo dell’insegnamento generale.
Passiamo ora a vedere come queste affermazioni, che vengono matematicamente provate in teoria, trovino anche una piena conferma sul terreno dell’esperienza pratica.
Già prima delle esperienze compiute dalla pedagogia cibernetica aveva avuto luogo, nel 1970, una piccola esperienza pilota, sotto la guida dell’interlinguista ungherese Istvan Szerdahelyi. Quest’ultimo aveva a sua disposizione una classe di scolari ungheresi che aveva studiato anzitutto l’Esperanto. Tale piccolo gruppo si suddivise poi per studiare o il russo, o il tedesco, o l’inglese, il francese (una tale possibilità non esiste purtroppo in Europa occidentale). Per il gruppo che studiava il russo, l’acquisizione di questa lingua fu facilitata, dal preliminare studio dell’Esperanto, per il 25%. Analogamente la riduzione della difficoltà fu del 30% per il tedesco, del 40% per l’inglese e addirittura del 50% per il francese. Alcuni anni dopo, in Germania Federale, questo sistema d’insegnamento propedeutico fu messo in pratica con un numero molto maggiore di scolari, ma al solo fine di trovare un mezzo per facilitare l’insegnamento dell’inglese. Le condizioni erano il più delle volte meno favorevoli che non in Ungheria, giacché la maggior parte degli insegnanti disponibili in Germania Federale erano molto meno preparati per questo tipo d’insegnamento che non i loro colleghi ungheresi. Tuttavia risultò che, dopo due anni d’insegnamento propedeutico dell’Esperanto, il vantaggio era non del 40%, come in Ungheria, ma pur sempre di circa il 30%, e restava poi sempre pari al 20% anche nel caso in cui l’insegnamento propedeutico fosse stato svolto soltanto per un anno.
In conclusione anche le esperienze germaniche confermano che val sempre la pena di ricorrere all’insegnamento propedeutico tramite l’Esperanto, giacché, a partire da un certo livello di conoscenza della lingua straniera, il tempo dedicato a detto insegnamento propedeutico viene recuperato”.
Helmar Frank, Valore propedeutico della lingua internazionale, in La comunicazione internazionale tra politica e glottodidattica, AA.VV., Milano, Marzorati, 1987. Vedasi del Frank anche Politica linguistica europea, in l a lingua internazionale nella storia della pedagogia, parte II, di Giordano Formizzi, Verona, Libreria Universitaria Editrice, 1986.
(89) Punto di riferimento di tutto il movimento esperantista mondiale è la “Universala Esperanto‑Asocio, Nieuwe Binnenweng 176, 3015 B Rotterdam, ad essa fa capo 1’organizzazione annuale dei Congressi Mondiali di Esperanto e la distribuzione di tutto il materiale prodotto nel mondo dalla cultura esperantista. Ci si laurea in Esperanto all’Università Eötuös Lorand di Budapest. I principali centri culturali esperantisti sono quelli di Bouresse, di Gresillon (un intero castello sulla Loira) e La Chaux De‑Fonds; responsabile del movimento esperantista in Italia e responsabile dell’organizzazione annuale dei Congressi Italiani di Esperanto è la F.E.I. Via Villoresi 38, 20143 Milano.
Il Pasporta Servo oggi è arrivato alla edizione del quindicesimo volumetto con 908 indirizzi di 58 nazioni. Una fondamentale rivista della produzione letteraria contemporanea in esperanto è Literatura Foiro con sede a Milano in Via Pantano 17 (cap. 20122) e al Comitato di Redazione di questo bimestrale vi rimandiamo per tutte le informazioni ed i consigli sulla cultura e la letteratura esperantista.
(90) Andrea Chiti‑Batelli, Una lingua per l’Europa, aspetti culturali e condizioni polítiche, Padova, Cedam, 1987, p. 3. Cfr. anche dello stesso autore La politica d’insegnamento delle lingue nella Comunità Europea, stato attuale e prospettive future, Roma, Armando 1988.
(91) Non ultimo fenomeno dell’egemonia economica e politica di uno stato è la glottofagia della sua lingua nei confronti delle lingue degli altri stati. Questo processo è chiaramente spiegato da J. L. Calvet nel volume Linguistica e colonialismo, piccolo trattato di glottofagia, Milano, Mazzotta, 1977. Illuminante, contro coloro che sostengono per l’Europa le tesi plurilinguistica, la dimostrazione di come il plurilinguismo ponga un serio freno alla possibilità di resistere alla glottofagia tant’è che il colonizzatore “ha spesso creato di sana pianta delle situazioni plurilingui, mediante il semplice gioco di suddivisione delle frontiere”, ibidem, p. 127.
(92) Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980, p. 128.
(93) Lucio Fontana nel libro di Carla Lonzi Autoritratto, Milano, De Donato, 1969, pp. 128, 129, 122, 141.
(94) In questo nuovo quadro culturale europeo uno dei problemi fondamentali sarà quello di stabilire nuovi rapporti con gli Stati Uniti.
La divisione e l’irresponsabilità degli europei nel corso del quarantennio postbellico, che li ha resi tra l’altro incapaci di organizzare una propria difesa unitaria, ha dato agli Stati Uniti la possibilità di assumere di fatto la guida politica del nostro continente e di esercitare un peso che solo il senso di responsabilità e le tradizioni democratiche americane hanno impedito che si trasformasse in una egemonia totalmente imperiale. Ciò significa che l’Europa non deve porsi in conflitto, od anche solo in concorrenza, con gli Stati Uniti, ma dovrà cercare alleati nelle forze democratiche e liberals di quel Paese per rendere più equilibrati, e perciò più sani, i rapporti oggi esistenti tra Europa e America, sia in campo culturale che in campo politico economico, militare, insomma di peso e presenza nella politica internazionale (ad esempio al fine di diminuire gli aspetti inaccettabili della politica statunitense nell’America latina e, più in generale, per realizzare congiuntamente a tutto il mondo industrializzato una politica qualitativamente diversa e più efficace di aiuto al terzo mondo).
(95) S. Agostino, De Civitate Dei, Lib. XIX. 7, p. 366, Lipsia 1877.
(96) Vedasi in proposito il testo di H. Gobard, con prefazione di Gilles Deleuze, L’aliénation linguistique, Parigi, Flammarion, 1976.
(97) È il caso di Philippe Lalanne‑Berdouticq in Appel aux Francophones pour le francais, langue de l’Europe Parigi, La Pensée Universelle, 1979, che propone una spartizione di questo genere: il francese all’Europa e al resto del mondo l’inglese. Non capendo assolutamente nulla del significato che ha il passare dalle culture nazionali all’Europa, alla sovranazionalità, cioè ad una nuova concezione del mondo, della cultura e della lingua.