Nella puntata del 27 ottobre 2019 curata e condotta da Giorgio Kadmo Pagano:
- L’Eurasia di Beuys e la non Europa di oggi;
- Ezio Quarantelli, Se gli alberi piantano noi;
- Pierparide Tedeschi, Beuys 1971-1986.
Il video integrale della presentazione
Ezio Quarantelli
Se gli alberi piantano noi
Cari amici,
non ho avuto la possibilità di assistere a nessuna delle discussioni di Beuys, ma la sorte mi ha concesso di essere il primo editore di una delle più importanti (e più attuali) fra esse: “Difesa della natura”, a cui appunto si ispira il titolo di questo mio intervento.
Nel corso di questa discussione e a seguito di un intervento di Marco Bagnoli, Beuys replica: “Noi piantiamo gli alberi, e gli alberi piantano noi, poiché apparteniamo l’uno all’altro e dobbiamo esistere insieme. È qualcosa che accade all’interno di un processo che si muove in due direzioni diverse allo stesso momento. L’albero dunque ha coscienza di noi, così come noi abbiamo coscienza dell’albero. È dunque di enorme importanza che si tenti di creare o stimolare un interesse per questo tipo di interdipendenza. Se noi non abbiamo rispetto per l’autorità dell’albero, o per il genio, o per l’intelligenza dell’albero, troveremo che l’intelligenza dell’albero è talmente enorme da permettergli di decidere di fare una telefonata per comunicare un messaggio sulle tristi condizioni degli esseri umani. L’albero farà la sua telefonata agli animali, alle montagne, alle nuvole e ai fiumi; deciderà di parlare con le forze geologiche, e se l’umanità fallisce, la natura avrà una vendetta terribile, una vendetta terribilissima che sarà l’espressione dell’intelligenza della natura e un tentativo di riportare gli esseri umani al lume della ragione attraverso lo strumento della violenza. Se gli uomini non possono far altro che rimanere imprigionati nella loro stupidità, se si rifiutano di dare considerazione all’intelligenza della natura, e se si rifiutano di mostrare una capacità di entrare in un rapporto di collaborazione con la natura, allora la natura farà ricorso alla violenza per costringere gli uomini a prendere un altro corso. Siamo giunti a un punto in cui dobbiamo prendere una decisione. O lo faremo, o non lo faremo. e se non lo faremo, ci troveremo a dover fronteggiare una serie di enormi catastrofi che si abbatteranno su ogni angolo del pianeta. L’intelligenza cosmica si rivolgerà contro il genere umano. Adesso però, ancora per un certo periodo di tempo, ci rimane la possibilità di giungere liberamente a una decisione – la decisione di prendere un corso che sia diverso da quello che abbiamo intrapreso in passato. Possiamo ancora decidere di allineare la nostra intelligenza con quella della natura.”.
Queste parole venivano pronunciate il 13 maggio 1984, trentacinque anni fa.
Se noi ne avessimo mantenuto viva la memoria, permettetemi di dire – con il grande rispetto dovuto alla giovinezza e alle buone intenzioni – che non avremmo bisogno di Greta Thunberg.
Le parole di Beuys non hanno bisogno di un commento, tanto sono forti, chiare, trasparenti. E attuali.
L’uomo non è una realtà separata dal cosmo, ne è parte a pieno titolo. Ogni azione che compie, ritorna su di lui, perché il cosmo è un insieme solidale.
Riprendendo un concetto tipico del buddhismo, ma che di certo non dispiacerebbe a Beuys, direi che l’uomo e gli alberi, l’uomo e la natura nel pensiero beuysiano inter-sono.
Molte delle rivendicazioni attuali per la salvaguardia dell’ambiente, hanno un carattere strumentale, o funzionale. La difesa della natura è in realtà esclusivamente finalizzata alla salvezza dell’uomo. Il rapporto con la natura resta un rapporto “servile”, la natura ci interessa perché ci serve (e questo naturalmente ribadisce una distanza fra noi e il mondo naturale).
Per Beuys, difendere la natura significa invece difendere l’uomo, in un senso molto profondo, direi “radicale”. Difendere la natura non significa soltanto garantirsi il futuro, significa anche difendere quella parte di natura presente in ogni uomo, quella parte dell’uomo che è natura.
Forse in questa idea risuona un’eco del romanticismo tedesco, ma a me pare evidente che ancora una volta Beuys coglie un nesso essenziale, anzi il nesso più essenziale.
Le parole di Beuys sono anche rivelatrici della funzione che egli assegna all’arte e all’artista, e dunque si assegna.
L’artista – quanto meno l’artista Beuys – non può più essere un talentuoso creatore di forme, da troppo tempo destinate ad arredare i salotti della borghesia affluente. E neppure un generico sovvertitore, un ribelle (un rivoluzionario sì, ma non un ribelle).
Il ruolo che deve assumere è piuttosto quello del catalizzatore di energie, del suscitatore di quella creatività che costituisce la parte più nobile (anche se spesso repressa) dell’essere umano.
È sufficiente scorrere i testi di questa o di altre discussioni per accorgersi subito del tipo di dialogo che Beuys instaura con le persone che ha di fronte.
Non assume l’atteggiamento di un profeta (anche se, come abbiamo visto, gli dobbiamo molte intuizioni profetiche) e neppure quello di chi parla ex cathedra.
Quello che lui vuole costruire con i suoi interlocutori è un confronto reale, in cui ciascuno può offrire un proprio contributo, sviluppando, orientando, approfondendo la discussione.
Quello che si stabilisce fra lui e gli altri è in qualche misura un rapporto di tipo socratico, con una forte componente maieutica.
Questo tipo di relazione – tra l’artista e la società – attraversa tutta la sua opera, sia quella che sembra avere una più immediata connotazione politica, sia quella che può al contrario apparire più enigmatica.
Anche l’uso dei simboli che ricorrono con tanta frequenza in tutto il suo lavoro non ha una valenza esoterica. Piuttosto il simbolo viene scelto e usato da Beuys come innesco di un processo, interno ed esterno, che riguarda ciascun individuo e la collettività nel suo insieme.
Il linguaggio dei simboli è un linguaggio universale, transpersonale, se posso utilizzare questo termine. Beuys usa simboli ancestrali o comunque immemoriali e simboli che invece sono tali in relazione o in dipendenza dalle vicende della sua vita. Tutti, però, anche quelli più personali, come il feltro, o il grasso, possono e sanno parlare a chi guarda.
Ogni sua opera ci chiama in causa, mette in scena una serie di rapporti, di relazioni che creano un campo di energie che ci invitano – ci spingono – all’azione. E l’obiettivo è sempre lo stesso: trasformare insieme il mondo, all’insegna della creatività e della libertà.
Spesso per Beuys si evoca la figura dello sciamano. Lui per primo, del resto, ha incoraggiato questa associazione. Bisogna, però, intendersi. L’interesse di Beuys riguarda questo mondo, questo pianeta, questa umanità.
Beuys è vissuto in un’epoca di grandi contrapposizioni ideologiche (come ricordate, il muro di Berlino cadrà soltanto nel 1989), ma è sempre stato alla ricerca di una Terza Via, una Terza Via a cui ogni uomo può e deve offrire il proprio contributo, su un piano di parità e nel nome di una vera democrazia.
Alcune delle ricette che allora parevano interessanti, forse oggi ci appaiono soltanto utopistiche (o proprio irrealizzabili). I decenni che ci separano da Beuys hanno cambiato il mondo e hanno, almeno in parte, modificato le sfide che dobbiamo fronteggiare.
Ma la sua lezione resta a mio avviso piena di vigore e di futuro, perché non ha smesso e non smette di essere vero che – e uso di nuovo una formula beuysiana – “la rivoluzione siamo noi”.