I limiti della neolingua populista
Quando un nuovo regime si insedia istituisce una «neolingua». E questa una delle intuizioni più durature di 1984 di George Orwell, la cui validità è stata certificata dal marketing politico e dalle scienze cognitive, che hanno dimostrato che si può vincere alla grande una campagna elettorale (e mantenere il consenso) proprio cambiando radicalmente i significati del lessico della politica e imponendo un’egemonia linguistico-culturale che costringe gli avversa ria inseguire. E, da qualche tempo, è la narrazione populista a servirsi di questa forma estrema di soft power, che viene miscelata con i precetti dello spin doctoring e veicolata molto efficacemente attraverso i social media.
Una neolingua è precisamente quella che viene dispiegata, giorno dopo giorno, dai due populismi postmoderni arrivati al governo del Paese, quello nazional-sovranista della Lega e quello camaleontico-postideologico del Movimento 5 Stelle. Ambedue dichiaratamente «antisistema», e quindi impegnati a edificare – in maniera tra loro competitiva – un altro tipo di sistema, anche (e meticolosamente) mediante il linguaggio. La neolingua orwelliana si basava sui principi della semplificazione e della limitazione delle alternative – esattamente come avviene nel discorso pubblico populista basato sulla polarizzazione, dove ogni tematica complessa viene sottoposta a un processo di riduzione ai minimi termini e di banalizzazione. E dove ci si deve schierare «con noi, o contro di noi»; e chi non appoggia le misure (al momento assai poche) dell’attuale esecutivo finisce per essere relegato in una condizione di nemico a tutti gli effetti. In primis perché la polarizzazione anche linguistica si tinge di una connotazione moraleggiante, come nel caso della campagna anticasta per antonomasia, quella sui vitalizi. E come nella formula lessicale del «decreto dignità», che rimanda nuovamente a un piano etico e metapolitico. La neolingua legastellata, infatti, batte e ribatte sempre sul livello simbolico (e il «muscolarismo»), che per il populismo è ben più rilevante delle politiche concrete. E lo mostrano, in modo inequivocabile, tutti i suoi architravi: le idee forza (la legittima difesa quale «valore non negoziabile»), le ostentazioni di virilità nelle relazioni internazionali (l’Italia che è «stata un po’ prepotente» e «vincente» nei confronti dei partner Ue, a detta del premier Conte), le frasi a effetto ruvide – e da bar sport – e gli slogan pensati come tweet o sound bite (citazione ndr) televisivi («la pacchia è strafinita»; il «vive su Marte» indirizzato a Tito Boeri), le proiezioni «utopico»-futuristiche (o, se si preferisce, le fughe in avanti, come la delega ministeriale alla democrazia diretta o la mezz’ora gratis di Internet «per i poveri»), la scelta programmatica del politicamente scorretto e la polemica costante verso i «buonisti» (come le ong), l’abilità nel rovesciamento dei significati («risorsa» che, da contributore straniero dell’Inps, si converte nella sarcastica etichetta salviniana per indicare lo squilibrato nigeriano che ha assassinato un anziano a Sessa Aurunca). E sempre, e rigorosamente, all’insegna di una logica di campagna elettorale permanente nella quale si moltiplicano esponenzialmente i fattoidi (i cosiddetti «fatti alternativi»), che risultano inversamente proporzionali ai fatti.
Altrettante prove provate, dunque, di come il populismo si fondi su una dimensione discorsiva che punta al framing preventivo, ossia a costruire una cornice interpretativa delle questioni istantanea e che non lascia il tempo per il dibattito (e la formazione di posizioni differenti) in seno all’opinione pubblica. Con il deliberato obiettivo di definire un campo di gioco politico-ideologico proprio ed esclusivo in cui gli avversari non riescono ad entrare, ed evitare così il più delle volte un confronto di merito. E l’esito, estremamente preoccupante, è l’impossibilità del dialogo e l’incremento in politica del tasso di incivility (la discussione su temi di scarso rilievo, e che stimolano la violenza verbale e la contrapposizione frontale). @MPanarari
Massimiliano Panarari | La Stampa | 7.7.2018