I fatti di Bronte di Leonardo Sciascia
«Un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano»
Nell’introduzione alla Storia della colonna infame, considerando la mostruosa ingiustizia che è nel processo e nella condanna degli «untori», Manzoni dice che «il pensiero si trova con raccapriccio a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla… Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano….».
Ora noi non abbiamo il problema della Provvidenza, e senza il dilemma di accusarla o di negarla ci chiniamo sui fatti di Bronte soltanto come su «un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano», pur considerando lo stato di necessità in cui Bixio venne a trovarsi, il suo carattere violento, la sua particolare impazienza (ché temeva, attardandosi in quell’operazione di polizia, di perdere la festa del passaggio dello Stretto e delle battaglie di Calabria), e la malafede dei suoi informatori.
Nella presente euforia celebrativa, in questo spreco di eloquenza e di quattrini (le celebrazioni dell’Unità d’Italia stanno costando più di quanto sia costata l’Unità stessa), è giusto ricordare la prima pagina di nera ingiustizia scritta da questa Italia contro l’altra Italia.
Ingiustizia non soltanto perché una rivolta di popolo, mossa da giuste e ancora vive cause, è stata sanguinosamente repressa, ma anche e soprattutto perché uomini sono stati giudicati e condannati per colpe che non avevano commesso e per idee e sentimenti da cui erano lontani e addirittura nemici.
«Io sarò a Bronte per la fucilazione e poi ci vedremo a Randazzo», scriveva Bixio al comandante Dezza: era l’8 di agosto del 1860. Il 6 era entrato in Bronte; 1’8 parlava già di fucilazione, ancor prima che avesse inizio il processo; il 9, all’alba, raccomandava ai giudici celerità e severità e partiva per Regalbuto, a reprimervi la rivolta; nel primo pomeriggio dello stesso giorno tornava a Bronte «per la fucilazione», che venne stabilita, con un proclama affisso alle cantonate, per l’indomani alle 8 al piano di San Vito.
Un garibaldino, il pavese Cantoni, raccontò poi, e l’Abba ne riferisce in Da Quarto al Volturno, che nel momento della fucilazione vide gli occhi di Bixio pieni di lacrime: ma forse velati di lacrime erano gli occhi del giovane studente di Pavia; è difficile pensare Bixio commosso, dopo aver letto questo suo biglietto in cui pare dia un appuntamento per dopo lo spettacolo. Ma limitiamoci al racconto dei fatti.
I fatti dell’estate 1860, a Bronte e nei paesi etnei, trovano un precedente negli accadimenti del 1820 (anche allora di estate: e pare che l’estate sia una dimensione psicologico-climatica dei fatti rivoluzionari siciliani e spagnoli; ci sono pagine, sanguinose ed atroci, delle due rivolte di Bronte che corrispondono anche nei particolari a quelle della guerra civile spagnola in Hemingway e Malraux).
Anche allora le popolazioni etnee si sollevarono in nome della libertà: e questa parola aveva un preciso significato di «libertà dal bisogno», tasse da non pagare, privilegi da distruggere e terre da dividere.
Mentre i notabili trescavano fra il principe di Villafranca, che presiedeva la Giunta provvisoria a Palermo, dove l’indipendenza dell’Isola era stata proclamata, e il principe della Catena, che comandava l’esercito regio mossosi ad annientare i moti indipendentisti, il popolo di Bronte e di altri comuni vicini si schierava con entusiasmo nella lotta per l’indipendenza.
Con lo sbarco di Florestano Pepe a Messina, le sorti della lotta per l’indipendenza, già compromesse dai dissidi tra le città siciliane, dovevano del tutto rovesciarsi in favore del governo di Napoli: ma restava ai brontesi il vanto di aver respinto e volto in fuga vergognosa le truppe, circa 2000 uomini, del principe della Catena; oltre all’esperienza di quel che effettivamente valesse, a far gli interessi del popolo e ad osservare costanza nelle idee e nei sentimenti, la loro classe dirigente.
Molti popolani, inoltre, facevano esperienza, in quelle giornate, di metodi e capacità di guerriglia e di comando: e tra loro il muratore Rosario Aidala, che poi capitanò la rivolta del ‘60 (e aveva preparato un piano di resistenza, nel ‘60, che se si fosse venuti al fuoco, il colonnello Giuseppe Poulet prima, e Nino Bixio dopo, avrebbero avuto del filo da torcere).
Le istanze di libertà movevano nel comune di Bronte da condizioni in parte diverse da quelle di altri paesi, che pure si sollevarono, del circondario. Da più di tre secoli Bronte lottava per i suoi diritti: fin dal 1491, anno in cui Innocenzo VIII aveva fatto, a danno del comune, larghe donazioni; ancora più larghe, e più pesanti per i brontesi, rese da Ferdinando I nel 1799.
Il territorio del comune si era assottigliato fino a sparire sotto le pretese, cavillose e crescenti, dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo prima, e dei duchi di Bronte (che erano, come è noto, gli eredi dell’ammiraglio Nelson: e sono) successivamente. Pesantissime erano le decime ecclesiastiche, tramutate si nel tempo in canoni.
I «civili» erano in maggioranza liberali, ma erano divisi in due fazioni: la fazione «ducale», che sosteneva cioè i diritti dei duchi, e i propri, e la conservazione (e dunque minima era la differenza tra questa fazione e quella borbonica); e la fazione «comunista», che rivendicava i diritti del comune e la divisione delle terre.
E per l’affermazione di tali diritti, dal 1512 al 1778, cittadini facoltosi e autorevoli avevano rovinato se stessi e le proprie famiglie: avevano perduto cariche pubbliche, averi e personale libertà; e degno di ricordo è tra loro il giureconsulto Antonino Cairone che, per difendere i diritti del comune contro l’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, fu destituito dall’ufficio, incarcerato ed esiliato. Il popolo seguiva, naturalmente, la fazione «comunista».
«Erano a capo dei comunisti» – scrive Benedetto Radice, studioso brontese che sui fatti del ‘20 e del ‘60 ha lasciato importanti scritti – «i fratelli Lombardo dott. Placido e avv. Nicolò, i fratelli Carmelo e Silvestro Minissale, il dott. Luigi Saitta. Avevano i fratelli Lombardo e Minissale sostenuto liti costosissime contro la Ducea, donde il loro odio per essa.
Tenevano per la Ducea: Thovez, l’avv. Cesare, l’avv. Liuzzo, Rosario Leotta, Antonino Leanza, Bernardo Meli, quasi tutta la classe dei civili e, fra la maestranza, i Lupo e gli Isola; e, sebbene fra loro non si fosse mai venuto ad aperta guerra, pure tramavansi e macchinavansi a vicenda sin dal’ 48 atroci calunnie, onde i Lombardo patirono il carcere.
Con il decreto intanto del 14 maggio era stato ordinato lo scioglimento e la ricostituzione dei Consigli civici e la formazione della Guardia Nazionale: con altro del 17 giugno venivano esclusi dai Consigli tutti i favoreggiatori diretti e indiretti della restaurazione borbonica.
Colse la palla al balzo l’avv. Nicolò Lombardo, sostenitore e capo del partito dei comunisti, per recare nelle sue mani il potere e metter ad effetto la tanta bramata divisione. La forza della rivoluzione ed i decreti del Dittatore gli davano cagione a sperare di sgominare e sopraffare il vecchio partito , che egli s’ingegnò di mettere in mala vista al nuovo governo.
I reggitori ed i ducali, che odiavano forte il Lombardo per le novità ch’egli intendeva introdurre a favore della plebe, capirono che egli, Presidente del Municipio, avrebbe disturbato il loro quieto vivere e sarebbe stato lo acerrimo nemico degli usurpa tori; ond’essi, per contrapporsi ai suoi disegni, giovandosi delle influenze ducali, gagliardamente e con tutti i mezzi, di cui soglionsi fare arma i partiti, lo combatterono, mettendolo in sospetto di borbonico presso il governatore Tedeschi ». (Benedetto Radice, Nino Bixio a Bronte, in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, anno VII, fascicolo I, 1910).
Poiché su questo, e su altri scritti del Radice, prevalentemente si basa la nostra rievocazione, è giusto tener conto del fatto che la famiglia Radice «fu in quei tumulti danneggiata negli averi», che il padre dello storico scampò miracolosamente al furore dei contadini (evidentemente teneva per il partito ducale) e che lui stesso ha della rivolta un terribile ricordo: «Ho tuttora innanzi agli occhi la scure di un contadino che stava per calare su me e sui miei fratelli minori… quando due artigiani, dei quali non sono riuscito mai a rintracciare i nomi, e le grida paurose di molte persone accorrenti verso il paese alla venuta dei soldati di Bixio, ci salvarono ».
Da secoli dunque la vita del paese era intorbidata dalla lotta, più o meno aperta delle fazioni: e sempre la fazione conservatrice, servendosi della polizia e dell’amministrazione della giustizia, aveva prevalso sulla fazione innovatrice.
Alle istanze di diritto, ai processi civili, si rispondeva coi processi criminali: per cui coloro che osavano alzare la testa contro l’usurpazione, ed erano, per sentimenti e cultura, i migliori cittadini di Bronte, subivano la tortura, il carcere, l’esilio.
Grande era perciò l’odio tra le due fazioni. Ed è da notare come nella fazione «comunista» si realizzasse in termini moderni l’alleanza fra gli intellettuali e i contadini.
Il 16 maggio 1860 giunse a Bronte notizia della vittoria di Calatafimi. I liberali scesero in piazza con la bandiera tricolore, tra l’entusiasmo del popolo. Parlò alla folla l’avvocato Cesare (della fazione ducale). Forse in quella stessa giornata, il notaro Ignazio Cannata (notaro della Ducea), alla vista della bandiera tricolore disse: «Perchè non levate questa pezza lorda?», parole che colpirono il sentimento popolare e accrebbero l’odio di cui il notaro, per il suo carattere prepotente e violento, godeva già.
Il 27 maggio Garibaldi entrava in Palermo. Il 31 insorgeva Catania. Cresceva a Bronte il fermento, ché il popolo, scrive il Radice, «non vedeva solo nel Garibaldi il liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore dalla più dura tirannide, la miseria; ed impaziente aspettava che fosse tolta la tassa del macinato, fatta la divisione del demanio comunale, già ordinata dallo stesso Borbone e novellamente dal Garibaldi col decreto del 2 giugno.
Di ciò i reggitori non s’erano punto curati, per naturale indolenza e per non ledere l’interesse di parecchi civili, che si erano fatti usurpatori delle terre vulcaniche del Comune… In Bronte specialmente lo spirito dei contadini era volto al patrimonio del Comune che sapeano larghissimo, onde essi inquieti e crucciati vedevano di mal’occhio alcuni della classe civile, sfruttatori ed oppositori ai diritti della plebe consacrati dalla rivoluzione. Era pure nella coscienza del popolo che la rivoluzione avrebbe sequestrato a beneficio della comunità i beni della Ducea Nelson…».
Chi ha letto I viceré e Il gattopardo sa quanto il cruccio e l’inquietudine dei contadini di Bronte fossero, verso la «classe civile» che era passata o si preparava a passare a Garibaldi, legittimi e motivati.
E con uguale cruccio e inquietudine noi abbiamo visto nel 1943 altri Comitati, i C.L.N., i Comitati dell’antifascismo, cadere in mano della «classe civile» che dal fascismo era tranquillamente passata all’antifascismo.
E accadde così che le elezioni, tenutesi a Bronte nella seconda quindicina di giugno, diedero un risultato opposto alla speranza del popolo: la prevalenza della fazione ducale fu netta e totale.
Al governatore di Catania e al comandante della Guardia Nazionale, i capi della sconfitta fazione «comunista» fecero presente lo stato delle cose in Bronte, e come i borbonici si fossero camuffati da liberali, e dell’inquietudine del popolo. Ma il governatore e il comandante, fiorse perché inetti o, più probabilmente, perché della stessa pasta dei nuovi magistrati comunali di Bronte, non se ne diedero per inteso.
Già appena conosciuto l’esito delle elezioni, il popolo cominciò a manifestare in piazza il proprio malcontento.
Il governatore di Catania fece affiggere un manifesto in cui raccomandava il rispetto della proprietà Nelson: il che a noi dice che il governatore era informato del fermento popolare che c’era in Bronte, e ai brontesi diceva irrisione dei loro diritti e delle loro speranze.
L’avvocato Nicolò Lombardo era il capo della fazione «comunista» e comandava una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale, detta degli spataioli (le altre tre erano della fazione ducale). Gli incidenti tra gli spataioli e le guardie delle compagnie ducali erano continui, quotidiane le minacce tra le due fazioni.
Ad un certo punto, alcuni civili della fazione ducale decisero (decisione che, ancor oggi, in Sicilia si prende senza pensarci tanto su) di eliminare fisicamente il Lombardo: e se il Lombardo non fosse stato avvertito della trama, sarebbe stato ucciso da sicari dietro la chiesa dell’Annunziata, dove l’agguato era pronto.