Politica e lingue

Globish, la lingua low-cost che tutti possiamo parlare

Corte di giustizia dell'Unione europea (Lussemburgo)

Globish, la lingua low-cost che tutti possiamo parlare

Un inglese semplificato, contaminato e ristretto da internet e nuove tecnologie, che permette di comunicare da Londra a Pechino. È il global English, criticato dai puristi ma parlato da 4 miliardi di persone

La lingua più parlata del mondo, sostiene il principe Carlo d’Inghilterra con una delle sue battute più riuscite, non è l’inglese: è il "global English", l’inglese scorretto, sgrammaticato, storpiato, che gli stranieri parlano per comprendersi tra di loro, e per comunicare, quando ci riescono, con gli abitanti di Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, insomma con quelli che l’inglese vero, l’inglese di Shakespeare, lo succhiano da piccoli insieme al latte del biberon. Questa lingua rudimentale, semplificata, ridotta all’essenziale, impasto di Internet, pubblicità, musica e fumetti, ha un nome e una filosofia: è il "globish", fusione di "global" ed "english", ed è usata più o meno correntemente da 4 miliardi di persone, circa due terzi della popolazione terrestre.

In passato erano gli imperi a imporre una lingua franca all’umanità. Il latino si diffuse nel Mediterraneo e in tutta Europa trascinato dalle legioni dei Cesari di Roma antica. L’inglese conquistò il pianeta seguendo l’espansione del British Empire, che all’apice del suo potere dominava un quarto delle terre emerse del globo. Quindi è venuto il turno di una nuova versione di inglese, l’americano, quando nella seconda metà del Novecento gli Stati Uniti hanno rimpiazzato la Gran Bretagna come superpotenza planetaria, conquistando il mondo non soltanto con la propria forza militare ed economica ma soprattutto con il "soft power"
della propria cultura di massa, i film di Hollywood, il rock e più recentemente il linguaggio del web, la Microsoft e la Apple, Google e Facebook.

La novità è che il "globish", a cui il settimanale Newsweek ha dedicato un lungo servizio, non avanza alla testa di un esercito, di una potenza economica o di un potere culturale. È la lingua dei vincitori, che i conquistati, i sedotti, i vinti, hanno digerito, imparato e rimodellato secondo le proprie esigenze. Il "globish" è l’inglese dell’era dei voli a basso costo, della terra resa piatta, non più rotonda, secondo la metafora di Thomas Friedman, da nuove forme di comunicazione e di trasporto che annullano le distanze culturali e geografiche. È la lingua dei messaggini e di Twitter, la lingua che dice "u r gr8" per intendere "sei grande" ("you are great"), che sintetizza in 160 caratteri l’amore e la morte, la letteratura e il giornalismo. È la lingua dei miliardi di nuovi immigrati ed espatriati. L’inglese tradizionale si è affermato perché era la lingua della diplomazia, del commercio, della finanza, dell’aviazione e poi della Rete. Il "globish" ha spodestato l’inglese tradizionale e perfino il suo successore, l’americano, semplicemente perché è la lingua di tutti.

L’ironia della sorte vuole che a inventare il "globish" sia stato un francese, cittadino di uno dei paesi più sciovinisti della terra, dove i termini inglesi vengono messi al bando, talvolta con effetti comici, come quando si dice "ordinateur" invece che computer. Jean-Paul Nerrière, un ingegnere informatico della Ibm, si accorse durante un’esperienza di lavoro in Estremo Oriente che gli uomini d’affari che non erano di madre lingua inglese comunicavano – in inglese – con clienti giapponesi e coreani molto più facilmente dei dirigenti d’azienda americani o britannici. La ragione era evidente: tra stranieri, parlavano un inglese più semplice, meno corretto, meno articolato, ma infinitamente più facile da capire reciprocamente.

L’inglese ha un milione di parole, un buon dizionario ne contiene mezzo milione, un giornale colto come il Times ne usa 40 mila, a un tabloid popolare come il Sun ne bastano 7 mila, ma Nerrière ha calcolato che il "globish", l’espressione da lui coniata per l’inglese "decaffeinato", come lo chiama ironicamente, ha un vocabolario di appena 1500 parole, e sono più che sufficienti. Ad esempio, invece di "nephew" (nipote), una parola dalla pronuncia non facilissima, il "globish" usa "the son of my brother", una frase più lunga, una forma contorta, ma facile da pronunciare e dal senso inequivocabile. Lasciata l’Ibm, Nerrière ha scritto un libro, Globish, e lanciato un sito, globish.com, per pubblicizzare la sua scoperta.

Robert McCrum, un linguista inglese, già autore di un bel libro sulla storia dell’inglese, ora ne ha scritto un altro, con lo stesso titolo di quello di Nerrière. "La Torre di Babele non è stata completamente smantellata, al mondo esistono ancora e continueranno a esistere 5000 lingue differenti", dice McCrum. "Ma quando un indiano e un messicano vogliono commissionare una ricerca a un laboratorio in Thailandia, i cui consulenti sono israeliani, tra di loro comunicano, a voce e per iscritto, in globish, una sorta di inglese ridotto ai minimi termini". Farebbe inorridire le nostre insegnanti di inglese al liceo, eppure funziona. Perché chiunque sa un po’ di "globish", ancora prima di cominciare a pensare di parlarlo: taxi, love, sex, phone, airplane, drink, one, thank you, please, good bye, sono parole universali, la base da cui partire senza timori.

È insomma la vittoria dell’inglese maccheronico, l’inevitabile risultato della globalizzazione, anche se può venire il dubbio se sia nato prima l’uovo o la gallina: è stata la globalizzazione a portare il "globish", o il "globish" che ha portato la globalizzazione? Come che sia, l’inglese per tutti trionfa perché l’inglese dei madre lingua creava complicazioni anche a loro stessi. "Due popoli divisi dalla stessa lingua", la celebre battuta di Oscar Wilde su inglesi e americani, è bene illustrata dalla vecchia storiella di due bianchi che si perdono, ognuno per proprio conto, nell’Africa nera e, dopo mesi di stenti e pericoli, finalmente si incontrano in una radura. Si abbracciano emozionati, poi uno dei due comincia a parlare. L’altro lo guarda interdetto, senza capire una parola. Allora sillaba lentamente, gesticolando per dare enfasi alle sue parole: "I-am-American. Where-are-you-from?" E l’altro esterrefatto: "Liverpool". Con il "globish", non si rischiano simili equivoci.

Il paradosso è che, mentre trionfa l’inglese semplificato, in Inghilterra viene istituita per la prima volta un’Academy of English, in difesa della lingua della regina, minacciata dagli slang creati dal multiculturalismo, il Chinglish dei cinesi, lo Spanglish degli ispanici, il Franglish dei francesi, e così via. E negli Stati Uniti l’inglese, o l’americano che dir si voglia, perde terreno davanti all’avanzata dello spagnolo, del tagalog filippino, del cinese, del coreano: nel 1980, soltanto 23 milioni di americani parlavano una lingua diversa dall’inglese; nel 2007 sono diventati 55 milioni, e continuano a crescere. Sempre più gente parla il "broken English" su cui ironizza il principe Carlo, sempre di meno parla il "Queen’s English", l’inglese forbito e perfetto di Sua Maestà.

L’autore di Globish racconta che ogni venerdì sera, nel campus dell’università di Pechino, qualche centinaio di studenti si riuniscono sotto gli alberi di pino di una piazza ribattezzata English Corner, per fare "conversazione in inglese". Parlano, in modo primitivo, di David Beckham e Paris Hilton, ripetono frasi fatte, si scambiano gentilezze a base di "please" e "thank you", per concludere tutti in coro con un entusiastico: "Yes, we can". Forse vogliono dire che anche la Cina, un giorno, potrà diventare libera e democratica. Ma per il momento intendono qualcosa di infinitamente meno complicato, sebbene non meno importante come segno di cambiamento: sì, anche noi possiamo parlare in inglese. Sorry, in "globish".

http://www.repubblica.it/esteri/2010/06 … e-4911588/

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