Genocidio culturale italiano

De Giovanni spiegato a Della Loggia

Luigi Di Maio, in visita a Washington come vicepresidente della Camera e candidato premier M5S, con l’ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, Armando Varricchio, davanti a Capitol Hill (Ansa)

Per essere un movimento eversivo non serve il fucile. Basta un clic

Questa visione del mondo non può non pesare nel linguaggio e nella drammatica semplificazione delle parole attraverso le quali esso si forma. Ogni visione palingenetica, di liberazione di una società dal male, parla per affermazioni secche e nude, non con la ragionevolezza anche aspra di una argomentazione, non c’è spazio per questo, ma per suoni, gridi –talvolta solo nascosti da chi ha un po’ più di buona educazione e cerca di presentarsi in pubblico in giacca e cravatta- che devono render visibile il rifiuto di poter essere contaminati da quel male. La situazione ideale è offerta dalle nuove forme della comunicazione, nelle quali, espandendosi oltre ogni dire l’impossibilità di un controllo dell’affermazione che si fa o dell’attacco che si rivolge a qualcuno, tutto passa con la velocità della luce, una velocità diretta e fulminante non “rappresentata” dalla lampadina, nella testa dei molti affezionali, tutti lì in attesa. Eversiva può diventare, sta diventando un’opinione pubblica che si forma così, con questi canoni, con la “violenza” di una sola parola che vale metaforicamente, s’intende, un colpo di pistola. L’avversario o il tema sollevato è nella polvere trafitto dalle frecce della parola violenta e con lui tutto ciò che egli, magari, “rappresenta”.
Ecco un’altra parola chiave dell’eversione contemporanea, rappresentanza, rappresentazione, parole solidamente insediate nel ritmo e nelle cadenze della democrazia moderna, senza le quali essa è senza volto, senza forma. Ebbene, la parola va rigettata, fa parte della visione corruttiva di un parlamento su cui si deve abbattere la palingenesi da cui tutto nasce, e che dunque è utilizzato essenzialmente come camera di risonanza di ciò che vive al di fuori di esso. La democrazia è diretta, non rappresentativa, il che contrasta con la lettera e lo spirito della costituzione dove titolarità ed esercizio del potere sono nettamente distinti, ad evitare il primitivismo democratico di cui parlava Giovanni Sartori. Ma poi si scopre, in certi casi, che questa democrazia diretta ha un suo percorso tutto particolare, e che dietro di essa non c’è un popolo, ma un blog. E, sempre in certi casi, anche qualcosa che incarna una associazione privata di comunicazione. Da tutto questo sgorga la nuova democrazia, quella palingenetica, che deve togliere il male dalla politica e possibilmente dalla storia e dall’animo umano. L’effetto eversivo non è tanto e solo nel comportamento delle élites che pure questo tipo di movimento non può non riconoscere, ma nell’effetto moliplicatore che questo atteggiamento ha su grandi masse che nel frattempo hanno perduto le loro mediazioni politiche. Certo, questa perdita indica che molto nella democrazia rappresentativa funziona tutt’altro che bene, ma eversore, “distruttore”, è chi la assedia dall’esterno (salvo a partecipare regolarmente alle elezioni, ma questo è altro problema che anche nel passato prima ricordato si verificò), come magari qualche volta ha provato ad assediare materialmente il parlamento, quella banda di corrotti che lo abita.
Ma c’è dell’altro. In questo quadro non esiste più lo spazio pubblico del dialogo ragionevole, anzi non esiste più affatto lo spazio pubblico come tale. Solo parole, parole; notizie, notizie senza controllo, le famose “false notizie”; insulti, insulti affollano la non-spazialità della comunicazione. Ci sono movimenti che fanno di tutte queste cose la loro bandiera, che hanno nel loro Dna la maggior parte delle cose indicate, in un intreccio abbastanza perverso. Questi movimenti io li chiamo eversivi. E per fare un riferimento italiano li chiamo “diciannovisti”, se pure con esiti che, ovviamente, non saranno uguali a quelli di quel tempo passato. E aggiungo che non c’è difetto grave o vera e propria crisi della democrazia rappresentativa, dato indubitabilmente attuale, che può far giudicare, come un antidoto e una risposta, un siffatto magma politico che si muove oggi in alcune società e che nella nostra rischia di diventare maggioranza, con quale futuro per l’Italia lo lascio immaginare: vivendo, il movimento, sull’assenza di ogni programma, e rigettando palingeneticamente ogni compatibilità economica. Eversione, insomma, è concetto storicamente determinato e non ho bisogno di ricordare questo agli storici.
Tutto questo, per rispondere, con cenni sommari, a un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera di qualche giorno fa, già commentato criticamente sul nostro giornale da Massimo Adinolfi. Gli articoli di questo storico sono sempre stimolanti per la nettezza che spesso li distingue, e che questa volta raggiunge per davvero un massimo. Forse stiamo praticando un piccolo, raro esempio di dibattito pubblico.
Biagio de Giovanni | Il Mattino | 29.11.2017

 

2 commenti

  • Una riflessione.
    Democrazia Eversione (e 5 Stelle).
    Ernesto Galli della Loggia | Corriere della Sera | 4.12.2017

    Le premesse per capire ciò che è in gioco alle prossime elezioni sono state bene illustrate
    qualche giorno fa sul Corriere (29 novembre, «Un centro di gravità per l’Italia») da Angelo Panebianco. Dal 1948 in avanti il nostro sistema politico è irresistibilmente attratto dal proporzionalismo, che per funzionare ha tuttavia bisogno, come lo stesso Panebianco lo ha chiamato, di un centro di gravità federatore delle varie parti geografiche, sociali e anche politiche del Paese. Vale a dire di un partito a vocazione maggioritaria – ma dalle molte anime o capace di attrarne molte (tipo quella che fu la vecchia Dc, poi per una breve stagione Forza Italia, e avrebbe voluto essere il Pd di Renzi). Il pericolo ovvio è quello del malgoverno consociativo, dovendo quasi sempre far convivere «il diavolo e l’acqua santa, quelli che vivono di mercato e quelli che vivono di spesa pubblica, le forze produttive e quelle improduttive, il profitto e la rendita», con le relative e più che probabili conseguenze sulla spesa pubblica. Inutile aggiungere che la formazione di tale «centro di gravità» si giova assai dell’esistenza di un partito antisistema (com’era ad esempio il Partito comunista di una volta), il quale con la sua sola presenza obbliga i partiti del sistema a stare tutti quanti dall’altra parte: già solo per questo potenzialmente insieme. Si ha così una polarizzazione del sistema politico che sia durante la campagna elettorale che dopo legittima il riavvicinamento di formazioni partitiche anche diverse.
    A vantaggio per l’appunto del centro di gravità federatore.
    Dato uno sfondo del genere si può dire che la sostanza vera del prossimo scontro elettorale sarà precisamente questo: «Grosse Koalition» destra/sinistra contro M5S. Ma se tale ipotesi è ragionevole, allora è altrettanto ragionevole pensare che l’enfasi sul carattere eversivo del M5S – che in questi giorni anima il dibattito politico – risponda in realtà a due obiettivi: a) già oggi come ottima arma polemica del Pd e di Forza Italia contro il loro principale concorrente; b) in vista del dopo elezioni per preparare il terreno a un’eventuale maggioranza governativa con la partecipazione di entrambi (intorno a quale dei due come centro di gravità federatore si vedrà dopo i risultati delle urne).
    Se però così è, allora mi chiedo: è lecito tratteggiare un quadro nei termini ora adoperati, e magari dire delle ragioni del consenso dei 5 Stelle, senza tuttavia passare per manutengolo di Di Maio o reggicoda di Beppe Grillo, senza essere additato come tipico rappresentante dell’intellettualità vigliacca pronta a stare sempre dalla parte del (presunto) vincitore?
    No, non è lecito, si risponde da molti, perché del movimento di Grillo si può parlare solo per maledirlo. Tu dimentichi, mi è stato rinfacciato, che esso è effettivamente un movimento eversivo. Non ti curi del fatto – ha scritto, ad esempio, sul Mattino Biagio de Giovanni, la cui figura intellettuale e politica merita un risposta – che l’impianto polemico-protestatario dei 5 Stelle, le loro campagne demagogiche contro la «casta», contro i vitalizi e quant’altro, il loro disprezzo per tutti coloro che non condividono il loro punto di vista o li criticano, tutto ciò non solo delinea effettivamente una posizione incompatibile con una visione dialogica e pluralista della politica, con il rispetto per l’altro che la democrazia richiede, ma vale altresì a diffondere sempre di più analoghi atteggiamenti pericolosi nella più vasta opinione pubblica. Diffonde a piene mani germi di antidemocrazia.
    In realtà non credo di dimenticare nulla. Semplicemente ricordo un po’ delle passate vicende politiche di questo Paese nell’età della Repubblica. Nel corso delle quali non sono davvero mancate forze che si presentavano come protagoniste di una palingenesi che non ammetteva alternative. Non sono davvero mancati partiti che consideravano tutto ciò che era diverso da loro alla stregua del «male», che usavano il Parlamento solo come cassa di risonanza di quanto avveniva fuori da esso. Le une e gli altri, quindi, originando un effetto eversivo moltiplicatore: non tanto e non solo, per l’appunto, nel comportamento dei loro esponenti di vertice ma sulle grandi masse dei cittadini-elettori. Di forze del genere ne abbiamo conosciuto un vasto campionario. E della qualità più diversa: Qualcuno ricorda, ad esempio, che cosa era il Partito comunista degli anni 50-60? Truman dipinto come un nazista, gli Usa accusati di diffondere il bacillo della peste in Corea, la Democrazia cristiana additata in Tv al disprezzo popolare da Pajetta come un «magma corruttivo», le grottesche fake news diffuse sull’Urss. E il Pci successivo della propria insistita, autocelebrata «diversità»? Domando: aveva tutto ciò, diciamo così, un tono vagamente palingenetico-aggressivo o erano cose che educavano le masse al rispetto dell’avversario e alla democrazia? E il nonviolento per antonomasia Marco Pannella, era forse un esempio di distinguo dialogico quando faceva oggetto delle accuse più indistinte e sommarie «la partitocrazia», o quando per esempio accusava ossessivamente dalla sua radio «la P2, P3, PScalfari» e tutto il maledetto «arco costituzionale» a cominciare dal Pci di aver voluto la morte di Aldo Moro e di non so più quante altre efferatezze? E Berlusconi? Ci siamo dimenticati di Berlusconi? Ci siamo dimenticati la «Costituzione sovietica», «Romolo e Remolo», la vittoria elettorale spacciata per una sorta di incoronazione lustrale della sua persona, la delegittimazione continua della magistratura, il dominio personale assoluto sui suoi parlamentari, la compravendita di quelli altrui? Eh sì, ce ne sono nella storia della Repubblica di menzogne politiche montate più o meno ad arte, di giudizi violenti e ingiusti, di offese alla democrazia! Il «caso Montesi, la campagna micidiale contro il commissario Calabresi, la diffamazione a freddo che distrusse un Presidente della Repubblica, sono cose accadute in Italia o dove?
    La Repubblica, insomma, non ha davvero tutti i conti in regola, mi sembra, con quel modello democratico che oggi talvolta ci piace d`invocare. La sua storia tormentata è piena di idee, persone e momenti antidemocratici. Abbiamo conosciuto l’antidemocrazia, quella sì e anche a piene mani. Però mai l`eversione, per fortuna, salvo quella demente del terrorismo o di ridicoli conati golpisti. Antidemocrazia ed eversione sono cose differenti. Il Pci ad esempio era un partito antidemocratico ma non eversivo; egualmente, a Silvio Berlusconi la cultura e le forme democratiche sono sempre state sostanzialmente estranee, ma altresì nulla è mai stato più lontano dalla sua mente che un qualche proposito eversivo. Allo stesso modo ancora, oggi il partito di Grillo (posso dirlo? né più né meno come una parte significativa dei nostri concittadini) è certamente percorso da pulsioni antidemocratiche anche profonde e sgradevolissime, e quanto alle buone maniere democratiche non sembra neppure sapere che cosa esse siano. Ma da questo a essere un partito eversivo a me pare che ce ne corra. Per essere antidemocratici bastano, diciamo così le parole, molte idee sbagliate e un assai modesto livello di fatti. Se invece si tratta dell’eversione, allora è diverso. All’eversione, infatti, servono l’azione, l’azione grossa, quella inevitabilmente violenta, premeditata, quella che si brucia i vascelli alle spalle. E invece Beppe Grillo – non se ne abbia a male come eversore mi sembra più adatto a una parte di comprimario in «Vogliamo i colonnelli» che a quella di protagonista in «il grande dittatore».

  • Incorruttibili da brivido.
    Il grillismo, con il suo spirito eversivo e il suo populismo, è diventato il braccio armato del giustizialismo, una minaccia mortale per la civiltà liberale.
    Dino Cofrancesco | Il Foglio | 6.12. 2017
    Nella sua prima stagione, il Movimento 5 stelle venne salutato dalle frange di una sinistra, che pensava, con nostalgia, alla esaltante contestazione degli “anni formidabili”, come l’alba di un nuovo giorno, dopo tanti anni di “dittatura” berlusconiana e di gioco in difesa attuato da quanti sembravano voler dimenticare le grandi battaglie repubblicane e antifasciste – dalla Resistenza al ’68. Grillo e i suoi avevano atteggiamenti rozzi e ineducati ma erano le forze fresche capaci di rianimare un sistema politico asfittico, in
    perenne attesa di grandi “riforme di struttura” alle quali nessuno pareva credere più. Un ceto politico stanco e inascoltato, ormai privo di seguito elettorale e sostanzialmente estraneo alla sua tradizionale base sociale – i quartieri popolari cominciavano a votare a destra – ritrovava nei nuovi “barbari” la vitalità perduta. Si rinnovava la vecchia illusione azionista della divisione del lavoro tra il “braccio” e la “mente”: i partiti e i sindacati di sinistra avrebbero provveduto alle quadrate legioni proletarie e gli eredi di Piero Gobetti e di Carlo Rosselli avrebbero fornito i capi, le guide morali e intellettuali della Nuova Italia. Perché sia ieri che oggi gli interlocutori – i molti – avrebbero dovuto accettare il ruolo modesto del”servir messa”, lasciando agli altri – i pochi – il compito di officiarla, resta inspiegabile e, infatti, in entrambi i casi, il progetto andò a monte.
    Almeno fino al 2014, però, il feeling tra grillini e sinistra (non liberale) era così forte da indurre molti osservatori, che ricordavano bene i climi che prepararono gli anni di piombo, a vedere nel M5s fondato nel 2009, soprattutto su iniziativa di Gianroberto Casaleggio – una sorta di costola plebea del ’68. Plebea sia perché sostanzialmente priva di “ideologia” – ovvero di “testi sacri”, di tradizioni intellettuali, di “scuole di pensiero” – sia perché sempre rivolta alla “pancia” della gente e (a parole) disposta ad assecondarne le insofferenze e persino i pregiudizi iscritti nel vecchio repertorio qualunquistico, evergreen nel nostro paese. Con due non poco significative innovazioni, però: l’enfasi posta sulla rete come strumento di democrazia diretta e un radicalismo verde, che nell’ultimo scritto di Casaleggio, “Veni Vidi Web” (Prefazione di Fedez, Edizioni Adagio) si sposava a tematiche animaliste ispirate a fondamentalismo etico (abolizione della corrida, chiusura dei macelli etc.).
    In un’ironica recensione sull’Unità del 22 dicembre 2015, Fabrizio Rondolino esponente di un’altra sinistra, quella renziana, da tempo riconciliatasi col mercato e coi valori della società aperta – così riassumeva, l’utopia pentastellata: “Nel lager di Casaleggio, oltre ai taglialegna e ai macellai se la vedono brutta in molti: i cacciatori “sono lasciati nudi nei boschi e braccati da personale specializzato con pallettoni di sale grezzo dall’alba al tramonto”, gli avvocati verranno ridotti “a un decimo” (ma, guarda caso, non i pubblici ministeri), “gli ipermercati sono rasi al suolo ovunque”, “le statue di Garibaldi sono state sostituite da statue di Gandhi” (e le altre?), chi inquina “è condannato alla raccolta differenziata a vita nel proprio Comune” (sperando che non sia amministrato, come Livorno, dal M5s), “corrotti e corruttori sono esposti in apposite gabbie sulle circonvallazioni delle città nei week end” (ma non è specificato che cosa faranno nei giorni feriali), chi possiede beni “mobili e immobili per un valore superiore a cinque milioni” deve restituire l’eccedenza, altrimenti sarà “rieducato alla comprensione della vita in appositi centri yoga”. In questo mondo sgangherato e feroce il mercato è stato abolito: la parola sarà tollerata “solo per il mercato rionale”. Al resto ci pensa lo stato, o qualcosa del genere: reddito di cittadinanza universale come “diritto di nascita”, assistenza comunale ai mendicanti, vietata “la speculazione sugli immobili” (e qui non sappiamo dire se Casaleggio ignori l’esistenza della finanza, dove la “speculazione” è assai più feroce e redditizia, o se al contrario sia un accanito speculatore che vuol farla franca), telelavoro “diffuso ovunque” (anche se non è ben chiaro chi mai abbia voglia di faticare, visto che, se non sta in qualche campo di rieducazione yoga o nudo nei boschi, gode felicemente del reddito di cittadinanza) e “lavori pesanti fatti dai robot”.
    Quali lavori? “La più grande impresa del mondo – annuncia il monopattini”. I pattini a rotelle invece a prezzo pieno? Ma, attenzione, non è una multinazionale, perché queste “sono state dichiarate illegali in tutto il mondo e quindi sciolte”.
    Si tratta di aspetti dottrinari che non vanno presi troppo sul serio giacché l’identità di un partito – o di un movimento non è definita dalla sua “filosofia”, o meglio dalla sua “visione del mondo”, né dal programma elettorale ma dalle battaglie, espresse in gesti simbolici, con le quali si identifica agli occhi di seguaci ed elettori. L’elettore comunista o l`elettore democristiano, in genere avevano solo un vago sentore del marxismo o delle dottrine sociali della chiesa e quasi mai, nel periodo elettorale, si prendevano la briga di leggersi il programma del partito, che restava chiuso negli armadi delle Federazioni.. A motivarlo erano gli obiettivi concreti – e spesso drammatizzati – che gli venivano presentati e che spesso non avevano tanto a che fare con gli interessi quanto con i valori: la diga contro il comunismo! L’arresto del clerico-fascismo etc.

    A far adottare alla sinistra una strategia dell’attenzione nei confronti dei pentastellati erano cose come la partecipazione intesa come la quintessenza di una citizenship, fondata sulla dignità e sul rispetto dei diritti di tutti, con la connessa riprovazione morale per gli assenti e gli astenuti che se ne stanno alla finestra, pronti a beneficiare delle conquiste civili ottenute dagli altri (“La libertà / non è star sopra un albero / non è neanche avere un’opinione / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber nel 1972.); la democrazia diretta, vista come liquidazione dei vecchi partiti e dei loro “buoni” uffici di mediazione sempre più costosi per i cittadini e sempre meno utili (per non dir altro); la disponibilità a scendere in piazza, “a metterci la faccia”, a gridare ad alta voce, come Howard Beale – il protagonista di “Quinto Potere” (1976) di Sidney Lumet, impersonato da un grande Peter Finch – la propria rabbia contro i padroni del pensiero, della politica, dell’economia. Per una sinistra già prima del secondo ’89 smarrita culturalmente e abbandonata dalla sua base sociale, era il classico richiamo della foresta.
    Dario Fo, Moni Ovadia, don Andrea Gallo etc., grazie a Grillo, avevano ritrovato la loro giovinezza. Valga per tutti il peana di Monia Ovadia nel 2011 “quello che ha fatto il Movimento di Beppe Grillo e lui personalmente è un servizio straordinario a questo paese, perché ha avuto la forza, il coraggio e la perseveranza di denunciare e di smascherare vergogne senza nome, senza di lui, senza il Movimento che si è costruito intorno alla sua figura, ma che poi ha una sua dignità e autonomia noi molte cose non avremmo potuto saperle e non avremmo potuto avere quel cuneo che questo Movimento rappresenta per non permettere e anche per impedire ai politici di sedersi sui loro vizi”. E le citazioni potrebbero continuare per intere pagine.
    Col passare degli anni, però, il M5s, che in questo ricorda la parabola del fascismo che metteva la sordina a vari punti del programma sansepolcrista via via che si avvicinava al potere, sembra aver attenuato il suo sinistrismo aggressivo sì da provocare la delusione cocente di simpatizzanti come Paolo Flores d’Arcais (Il Movimento 5 stelle non è più votabile, La Repubblica del 18 marzo 2017), il disgusto di Gad Lerner, colpito dall’antisemitismo di Grillo, e il deciso raffreddamento del Fatto quotidiano – compensato solo dall’apertura di credito del Manifesto che ancora l’11 giugno 2016, pubblicava un articolo di Guido Liguori, stimato studioso di Antonio Gramsci, dal titolo Perché si può votare 5 stelle.
    E’ innegabile, tuttavia, che il Movimento, nonostante la piattaforma Rousseau, dichiari superata la distinzione destra/sinistra, incurante di quanto scriveva Maurice Duverger: se qualcuno mi dice che non ha più senso parlare di destra e sinistra, non ho dubbi, è uno di destra.
    Del resto, se si esaminano le caratteristiche che inducono uno dei più seri studiosi del populismo in Italia, Marco Tarchi, a definire populista il grillismo (v. il saggio “Dieci anni dopo”, in Quaderno di Sociologia, n.65, 2014), la sinistrizzazione del M5s qui sostenuta, potrebbe ingenerare più di un dubbio. Le elenco in ordine sparso: “il popolo, come insieme dei cittadini, è il depositario di tutte le virtù che l’odierna classe dirigente nega o trascura”; “ostilità verso l’invadenza dello stati nella vita della gente comune”; “denuncia della ‘truffa’ implicita nel meccanismo della rappresentanza, accusato di escludere i non addetti ai lavori dalla gestione della cosa pubblica e dunque di annullare il fondamento della democrazia”; “invocazione di una politica estera isolazionista che tuteli invia esclusiva dli interessi del paese”; polemiche contro le istituzioni transnazionali e diffidenza nei confronti dell’Unione Europea; rifiuto della lotta di classe e “ruolo positivo del ceto medio, spina dorsale dell’unità nazionale”: le piccole e medie imprese etc.; “richiami alla tradizione popolare” ed “esaltazione delle radici italiane” che spiega la preferenza per lo ius sanguinis rispetto allo ius soli; “messa in guardia contro le ricadute di un’‘eccessiva apertura dei confini ai flussi migratori. Sfiducia negli intellettuali; estraneità del capo alla politica. “Anche l’esaltazione delle virtù della rete telematica può rientrare nella sfera populista”, conclude Tarchi.
    Il politologo fiorentino ha ragione – a parte l’esaltazione delle “radici italiane” smentita clamorosamente dal sostegno pentastellato alla commemorazione delle vittime meridionali degli invasori piemontesi – sennonché resta poi da spiegare il motivo per cui alle elezioni presidenziali del 2013 e del 2015, tra i votati del Movimento, non si sia trovato una sola figura di politico, di professionista, di giurista di area moderata: da Stefano Rodotà a Ferdinando Imposimato, da P. L. Bersani a Gustavo Zagrebelsky, le preferenze non sono andate neppure per sbaglio a qualche esponente vicino al riformismo renziano. Per non parlare delle questioni bioetiche in cui i grillini si ritrovano sempre regolarmente vicino alle componenti più laiciste delle due Camere (a parte l`ambiguità sui vaccini).
    Sennonché lo spirito eversivo del grillismo potrebbe ancora venir messo in dubbio se il suo populismo non avesse un aspetto inquietante, sommamente inquietante, che fa del caso italiano un caso a sé, sul quale i maggiori esperti del fenomeno non hanno, a mio avviso, riflettuto abbastanza – o a essere più precisi, non hanno riflettuto affatto. Si tratta di quella che Indro Montanelli chiamava una rivoluzione all’italiana, ovvero la rivoluzione fatta col consenso dell’Arma dei Carabinieri. Nel caso dei pentastellati, la ribellione all’ordine politico esistente può contare sul sostegno di una parte consistente della Magistratura, dagli Antonio Ingroia, ai Nino di Matteo, dai Ferdinando Imposimato ai Piercamillo Davigo. Il grillismo è divenuto il braccio armato del giustizialismo e, al pari di questo rappresenta una minaccia mortale per la civiltà liberale, che è civiltà di forme e non di contenuti, che incorona il vincitore della competizione elettorale svolta secondo le regole, anche se il vinto è qualitativamente superiore.
    A disposizione del Giudice Inquisitore i Cinque stelle mettono un corpo armato di sbirri pronti ad accatastare le legna e ad accendere i roghi. Un caso classico di affinità elettive. Il movimento che ha nel “governo ladro” la forma più incurabile della sua paranoia trova la sponda di giudici, come Piercamillo Davigo, che dichiarano “non mi occupo di politica ma di politici quando rubano”. La colpa per eccellenza, quella che non si perdona, è il furto: il magistrato non dice che suo compito è perseguire i reati – dall’abuso di potere alla violenza fisica – no, la sua missione è snidare i ladri, ad esempio quelli che evadono il fisco, non volendo dare allo stato la metà delle loro (talora modeste) entrate.
    Naturalmente credo anch’io che quanti rubano vadano severamente puniti ma, in una società enormemente complessa come la nostra, credo pure che comportamenti leciti e comportamenti illeciti non siano facilmente separabili come le biglie bianche e nere deposte nell’urna elettorale. La pretesa di giudici e politici di poter riconoscere, al di là di ogni ragionevole dubbio, i criminali dalle persone perbene fa correre un brivido sotto la schiena specie quando si vedono certi politici e certi imprenditori, oggettivamente discutibili, oggetto di vere e proprie persecuzioni giudiziarie laddove i loro avversari sono intoccabili e santificati proprio perché loro avversari.
    La rabbia incomposta dei grillini nei confronti degli esponenti del centrodestra, l’assoluta mancanza di fair play dimostrata dopo la proclamazione dei risultati elettorali in Sicilia, quando il candidato sconfitto si è rifiutato di telefonare al vincitore per non contaminarsi, l’appoggio incondizionato dato a Pietro Grasso che non aveva ritenuto opportuno lo scrutinio segreto per l’espulsione di Berlusconi dal Senato (contravvenendo a una precisa disposizione del Regolamento del Senato), il verso fatto al livido Travaglio ogni volta che si parla del Cavaliere (il “pregiudicato”) sono episodi simbolici che dovrebbero far paura. Gli Incorruttibili (che poi sono dei Tartufi mascherati da SaintJust) terrorizzano più dei “corrotti” giacché corrotti essendo un po’ tutti, quanti pensano di non esserlo sono clonazioni di Dorian Gray che hanno nascosto in chissà quale armadio il loro repellente ritratto.

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